È noto a molti l’antico detto latino: “Si vis pacem para bellum”, ovvero “Se vuoi la pace prepara la guerra”; una frase lapidaria che ha attraversato i secoli, insegnando poco sia agli uomini di ieri che a quelli di oggi, se è vero che la storia dell’umanità è cadenzata da violenze e guerre che hanno coinvolto pochi o tanti popoli, pochi o tanti soldati, di certo tantissimi innocenti.
Ma è possibile oggi percorrere ancora la strada della non violenza? C’è ancora spazio per una via alla soluzione dei conflitti che non passi attraverso le armi?
Ma cosa è la non violenza? È possibile darne una definizione? La non violenza è soprattutto un modo di essere e di agire che rispetta l’altro. Ha alcuni principi basilari, quali la volontà di raggiungere obiettivi precisi di convivenza fra le persone, promuovendo la loro collaborazione attiva, utilizzando come strumenti per realizzarla azioni di resistenza collettiva, pacifica, chiara ed efficace.
Interrogato sulla sua filosofia, Mohandas K. Gandhi stupì tutti ricordando che non c’era nulla di innovativo nel suo operare, ricordando che la non violenza era “antica come le colline”, e che, riletta in quell’ottica, la storia dell’umanità era “più ricca di bene che male, più di collaborazione che di violenza”.
E se gli apostoli della non violenza come Gandhi, Martin Luther King o Nelson Mandela hanno lasciato, con il loro esempio, segnali indelebili della loro testimonianza, ve ne sono altri, altrettanto importanti da ricordare. E fra queste, due donne, in particolare, come madre Teresa, “icona dei nostri tempi”, come l’ha definita Papa Francesco, e Leymah Gbowee, attivista liberiana che ha portato agli accordi di pace del 2003. Anche San Paolo VI fu il primo ad indicare come “la pace sia l’unica e vera linea dell’umano progresso, non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile”.
Chi non ha mai fatto mancare la propria voce su questo è Papa Francesco che, ancora recentemente, ha ricordato come in un mondo “frantumato”, preda di “una terribile guerra mondiale a pezzi” portata avanti dai “signori della guerra”, la nonviolenza per i cristiani non sia un optional, ma l’unica “cura”, come ci ha insegnato Gesù.
Purtroppo anche il nostro Paese non brilla di certo, fra gli Stati membri della UE, per spesa in cultura e istruzione, ma è, al contrario, fra i top per spese militari. E che il business delle armi non conosca declino lo confermano le indagini economiche sul settore: l’ultimo dato disponibile, riferito al 2017, parla di un giro d’affari complessivo annuo di oltre 1.500 miliardi di dollari, probabilmente stimato per difetto.
Fra gli obiettivi del Governo vi è poi, come noto, l’introduzione della “Legittima difesa” che è destinata a condurre, sull’esempio degli Stati Uniti, ad una legislazione che faciliti anche l’acquisto ed il possesso delle armi.
Il sociologo norvegese Johan Galtung ha teorizzato, nei suoi studi, diversi “livelli” di violenza, dove quella “diretta”, che conduce a guerre, omicidi, attentati, non è che la più evidente, ma non la più devastante. Ben più gravi sono la violenza che subdolamente promuove strutture “economiche e sociali” che la favoriscono, come la produzione di armi e la creazione di eserciti ufficiali o mercenari, o la violenza “culturale”, che sta sullo sfondo e giustifica e legittima le altre forme.
Bello anche notare come il concetto stesso di “non violenza”, con due parole distinte, assenza-di-violenza, si stia trasformando in “nonviolenza”, cioè in una sola parola, in un concetto positivo nel quale vi è una trasformazione dell’inimicizia in una relazione costruttiva.
È stato detto che viviamo in un sistema totalmente interconnesso nel quale, apparentemente, non ci sono soluzioni semplici, se non quelle fondate sulla violenza. Ma non è così: proprio la nonviolenza è un modo adeguato per stare al mondo nel tempo della complessità, ed in questo mondo così globalizzato, proprio i media stanno divenendo strumenti fondamentali per la promozione delle battaglie non violente, come dimostrano le manifestazioni in alcuni Paesi del Sudamerica.
Ma dove si coltivano i semi della pace e della nonviolenza? In famiglia, dice il Papa, e ricorda l’Amoris Laetitia per ribadire che “le politiche di nonviolenza devono cominciare tra le mura di casa per poi diffondersi all’intera famiglia umana”.
Essere non violenti non significa essere passivi. E lo ha spiegato bene lo storico Jacques Sémelin, nel suo libro La non violenza spiegata ai giovani, quando, prova a rispondere alle sollecitazioni delle figlie che gli domandano cosa sia un non violento: “Si crede che i non violenti siano coloro che rifiutano la guerra sempre e comunque, i pacifisti. Si pensa che manchino di coraggio, che siano dei vigliacchi che non vogliono combattere. Siccome la violenza è dappertutto, si immagina il non violento come qualcuno con la testa tra le nuvole, un tipo che si lascia mettere i piedi in testa”, ma non è così, anzi “non violenza significa agire contro la violenza senza usare la violenza. Vuol dire servirsi della vita per vincere, mentre con la violenza si minaccia sempre di morte l’avversario”.
E per il domani? C’è solo una strada efficace, a rifletterci bene, che si può percorrere ed è quella del cambiamento culturale.
Una mutazione che non può che transitare dalle nuove generazioni e sulle quali è necessario investire: delegittimare la violenza come soluzione delle questioni e promuovere relazioni alternative non basate sui rapporti di forza. Dunque, educare al rispetto per l’altro, della sua vita e della sua dignità, indipendentemente dalla provenienza, dalla religione, dal colore della pelle.
Solo utopia? Era anche ciò che veniva imputato a Gandhi, King e Mandela, ma, alla fine… la speranza rimane.
di FABRIZIO GAUDIO
questo articolo è stato pubblicato su Andare alle Genti
per informazioni e abbonamenti alla rivista, clicca qui