DIO COME ABRAMO

Nella nostra tradizione ecclesiale per secoli si è detto che il peccato di Adamo era stato tale da esigere una riparazione adeguata di quell’offesa con un sacrificio che fosse all’altezza di Dio, ossia con quello dello stesso Figlio di Dio. E chi contestava “la Chiesa” o “la teologia” aveva buon agio a dire che evidentemente il Padre era più disumano degli uomini, che sapevano perdonare e non si mostravano tanto spietati, soprattutto verso i propri figli.

Ma davvero è questo, ciò che ci dice la Bibbia?

Il sacrificio di Isacco

Può essere utile ripartire da molto lontano, da una delle prime pagine fondamentali che troviamo nell’Antico Testamento, dal personaggio di Abramo.

La tradizione cristiana riassume la chiamata di Abramo nell’appello che Dio gli rivolge di uscire dal suo paese, dalla terra di suo padre, per andare verso una terra che gli sarebbe stata indicata (Gen 12,1). La tradizione ebraica, con più finezza, fa notare che accogliere una promessa di terra e discendenza quando sostanzialmente non si ha niente può essere più semplice che rinunciare a qualcosa che già si possiede. Vale a dire che coglie il centro della dedizione fiduciosa di Abramo, piuttosto, nella disponibilità a sacrificare il figlio Isacco (Gen 22).

Narra infatti il libro della Genesi che, quando già Abramo aveva dato prova di grande disponibilità e ascolto delle chiamate di Dio e aveva ottenuto un figlio, Dio gli chiede di offrirglielo in sacrificio.

Il testo biblico è lancinante: «”Abramo!”; rispose: “Eccomi”» (quasi a controllare che davvero stesse a sentire, senza scuse di distrazione), «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio» (sì, non hai alternative, è tutta la discendenza che hai), «che ami» (sì, gli vuoi bene, non è un figlio magari degenere che non sopporti tanto), «Isacco» (il nome! Non è un ruolo, è una persona, con tutta la storia già costruita insieme e l’affetto reciproco) «va’ nella regione di Moria e offrilo in olocausto dove ti dirò» (Gen 22,2). Isacco, peraltro, non si ribella, ma, pur non capendo subito tutto («Padre! Ecco il fuoco e la legna; ma dove è l’agnello per l’olocausto?»: Gen 22,7), si sottomette al sacrificio, rendendolo per suo padre ancora più pesante.

È chiaro dal discorso che Dio non pensa che qui sia in gioco una semplice “ricompensa” o “regalo” che si riprenderebbe indietro, né soltanto il ruolo di padre. Qui, ben oltre e sotto a tutto ciò, è in gioco un legame personale intenso, intimo, di affetto. Non sta semplicemente chiedendo ad Abramo di restituirgli la terra che gli aveva offerto, lo sta privando di una persona che ha imparato a conoscere, che ha fatto iniziare a camminare, cui ha insegnato, che ama. Dio non ragiona in termini di ruoli, di doveri, di vincoli, bensì di relazioni personali. Su questa base, come si può immaginare che si trovi “costretto” a chiedere un sacrificio alla propria altezza per riprendere la sua relazione con l’essere umano?

Sappiamo, peraltro, come finisce la storia: quando Abramo ha preparato l’altare e ha già il coltello in mano, Dio lo ferma, mettendogli a disposizione un montone (Gen 22,9-13). Dio non sopporta di privare Abramo del suo legame con il figlio. La vita umana e le sue relazioni contano per Dio più della fiducia nei Suoi confronti.

La croce di Gesù

Anche Gesù si è trovato di fronte a un sacrificio lancinante, che questa volta interessava lui in prima persona. È lui, come si recita nella messa, l’agnello di Dio (ossia, il sacrificio) che è morto per gli uomini. È lui che, morendo per noi, ha dimostrato quanto ci ami: «Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rom 5,7-8). È peraltro ancora san Paolo a farci notare che la morte in croce non è solo lunga, dolorosa, ingiusta, ma era oltretutto ritenuta la morte dei maledetti da Dio («Cristo è divenuto maledizione per noi, poiché sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno»: Gal 3,13, che riprende Dt 21,23). Insomma, è come se Gesù, morendo in croce, abbia anche dovuto accettare di essere pensato come respinto da Dio: «Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8).

Nel Getsemani Gesù avrebbe avuto la possibilità (e sembra abbia avuto la tentazione) di scappare, e sicuramente è spaventato da ciò che intuisce incombere su di lui, ma, pur ammettendo di non desiderare con ciò che sta per succedere, si sottomette alla volontà del Padre: «Non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). Si sottomette come ci si rassegna all’inevitabile, a qualcuno più forte e prepotente di noi? Non si direbbe, perché poco prima, nell’ultima cena, aveva detto che il pane e il vino erano il suo corpo e sangue, offerti per i discepoli. E lungo tutta la sua vita si era donato ai discepoli e ad altri, con generosità. Insomma, il dono di sé sulla croce è almeno coerente con il dono di sé lungo tutta la sua esistenza.

Ma abbiamo qualche squarcio che ci permetta di intuire come il Padre abbia vissuto tutto ciò?

La croce del Padre

In più di una parabola Gesù sembra volerci lasciar intuire ciò che pensa il Padre quando Gesù sta salendo sul calvario: un uomo aveva una vigna, che circonda di un muro, vi pone dei vignaioli dai quali poi spererebbe di ottenere dei frutti, ma costoro picchiano e uccidono gli incaricati di riscuotere il frutto del lavoro (Mt 21,33-40; Mc 12,1-9; Lc 20,9-16). Non dobbiamo dimenticarci che le parabole vorrebbero aiutarci a capire realtà difficili, proprio facendo riferimento a situazioni per noi più “normali”. Ossia, non solo possiamo, ma in realtà dobbiamo chiederci che cosa ci aspetteremmo che quell’uomo faccia. Noi che cosa faremmo? Non gli manderemmo addosso gli esattori, armati e decisi a scacciare quei vignaioli?

Ebbene, il Padre decide di mandare suo figlio. Ma come? Ti hanno già ucciso dei servi, e tu gli mandi il figlio? «Avranno almeno rispetto di mio figlio» (Mt 21,37; Mc 12,6; Lc 20,13). Ci verrebbe da dirgli: “Ma sei davvero così ingenuo? Ma hai così poco affetto per tuo figlio? Io non ci manderei più nemmeno uno schiavo…”.

Il punto è che il Padre è proprio così, decide di provare a scommettere ancora su quei vignaioli che già si sono svelati per niente affidabili. Di fronte alla dimostrazione di aver sbagliato a fidarsi, decide di concedere ancora una possibilità.

Abramo, per continuare a fidarsi di Dio, per non interrompere la relazione di fiducia che c’era tra loro, accetta di mettere a rischio colui che ama. Ma Dio non gli consente di farlo.

Quando però si trova Dio nella situazione di Abramo… non si ferma. Fermarsi vorrebbe dire trattenersi qualcosa, mentre Dio vuole far capire all’uomo che per salvare la relazione con lui è disposto a giocarsi tutto il resto. Il massimo che si possa dare per un altro è la propria vita, dice San Paolo (Rom 5,7-8, l’abbiamo citato sopra), ma Abramo e il Padre ci fanno intuire che si può dare ancora di più, ciò di fronte a cui l’essere umano trema di vertigine, ossia offrire non la vita propria, ma quella di chi si ama. E il Padre vede salire al Calvario e dare la vita e acconsente a dare la vita del figlio, del suo unico figlio, che ama, Gesù.

Angelo Fracchia

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