Mi capita spesso, quando accompagno qualche ospite a visitare il grande tempio buddista di Gandan a Ulaanbaatar, di registrare osservazioni di stupore per la grande devozione che traspare dal comportamento dei fedeli che vi si recano per compiere le loro pratiche cultuali. Le gestualità religiose sono condivise dalla maggioranza delle culture del mondo e vanno conosciute nella loro originalità. Quello che l’osservazione ci fa cogliere è il comune denominatore che avvicina le diverse tradizioni religiose, l’animus religiosus che è profondamente inscritto nel cuore umano, anche laddove si è fatto di tutto per estirparlo (nei settant’anni di comunismo mongolo il regime ha tentato di cancellare ogni traccia del Buddismo, considerato un ostacolo al progresso e all’affermazione del marxismo-leninismo). Ma sarebbe irrispettoso dell’originalità di ogni religione desumere da questo che siano uguali e corrispondenti i significati attribuiti a tali segni esterni. Il fenomeno è simile, ma la sua interpretazione richiede un lento percorso di decifrazione dei simboli e di conoscenza oggettiva delle singole religioni.
Il Buddismo nacque come movimento di rinnovamento all’interno della complessa realtà religiosa dell’India del VI secolo a.C., pesantemente segnata da un certo ritualismo indù che era giunto al suo apice. Almeno nelle sue intenzioni originarie questa nuova dottrina filosofico-morale si proponeva di restare nell’alveo di una prassi di vita che offrisse una via d’uscita al problema della sofferenza umana, attraverso un progressivo distacco dalle realtà terrestri, regolato dall’ottuplice sentiero indicato dal Budda. Con il passare del tempo tuttavia tale movimento assunse una connotazione sempre più religiosa, che si arricchì delle forme spirituali dei popoli in cui si diffuse. Ecco allora formarsi tradizioni anche molto diverse tra loro. Generalmente le si suddivide in due principali indirizzi, quello della Tradizione Hinayana (rappresentata eminentemente dalla Scuola Theravada, diffusa soprattutto nel Sud-Est Asiatico) e quello della Tradizione Mahayana, a cui appartiene anche il Buddismo Tibetano. Nel nostro caso ci riferiamo al Buddismo mongolo, cioè quella particolare forma di Buddismo che, giunta originariamente dal Tibet, si diffuse ed affermò a più riprese tra i Mongoli, fino ad assumere una sua forma peculiare, mescolandosi con forme religiose preesistenti.
In questa Tradizione un gesto tipico è quello di far girare in senso orario le cosiddette “ruote della preghiera”. Si tratta di cilindri rotanti (in metallo o legno), su cui sono scritte o incise le sei sillabe sacre del grande mantra della Tradizione Mahayana. Li si trova di solito all’esterno dei monasteri o in prossimità di stupa; il devoto è invitato a farli girare in senso orario, “liberando” così il potenziale energetico del mantra stesso, dandogli cioè ancora più forza rispetto alla semplice recita orale. Varie sono le interpretazioni del mantra, la cui formulazione è la seguente: “Oṃ maṇi padme hūṃ”. Tradurre mantra in frasi di senso compiuto è un’impresa piuttosto ardua, oltre che non necessaria, secondo la tradizione tibetana; si tratta infatti di messaggi simbolici e allusivi, sui quali prevale l’importanza della recitazione intesa come atto religioso rispetto al significato esatto delle parole. Quello che si può desumere è che la prima delle sei sillabe sanscrite è sacra a varie religioni indiane e rappresenterebbe la forma primaria di emissione di un suono tramite l’apparato fonetico; “maṇi” sta per “gioiello” e “padme” significa “fiore di loto”, mentre “hūṃ” ha a che fare con il campo semantico di “illuminazione”. Talvolta nelle spiegazioni ad uso di occidentali si trova la seguente interpretazione piuttosto generica: “Ecco! Il gioiello nel loto”. A questo mantra è associato un potere di purificazione dalle sei forme di attaccamento negativo, a cui corrispondono altrettanti reami di esistenza sofferente. In realtà il fedele che compie il gesto di far girare le ruote della preghiera solitamente non è a conoscenza dei significati “tecnici” del mantra, ma esprime in questo modo un sentimento religioso di devozione, il desiderio che tutto continui a “girare per il verso giusto”, che non si fermi il movimento che tutto tiene in equilibrio.
La gestualità buddista mongola conosce molte espressioni. Alcune si riferiscono ad atteggiamenti del fedele nell’atto del pregare, come il congiungere le mani prima all’altezza della fronte e poi del petto in segno di rispetto e devozione, il portare la fronte a toccare un oggetto sacro o prezioso, il compiere inchini e prostrazioni vere e proprie di fronte a luoghi e oggetti sacri; altre connotano di sacro i ritmi quotidiani all’interno delle abitazioni (soprattutto le ger, ossia le tradizionali tende mongole), come il bruciare davanti a effigi sacre incenso di ginepro tritato ed essiccato e l’accendere lumi alimentati da grasso di pecora; altre ancora hanno una valenza cosmica di impetrazione di aiuto e protezione e sono associate a fenomeni naturali (soprattutto il sorgere del sole), come l’offerta del primo tè in direzione dei quattro punti cardinali e la dispersione di cibo nell’ambiente circostante.
Tutte queste gestualità sono tipiche di una cultura fortemente impregnata di religiosità e per questo costituiscono una suggestiva provocazione alla mentalità occidentale spesso condizionata da secolarismo e disillusione religiosa. In Mongolia non è infrequente notare occidentali che nel proprio contesto di origine si dimostrerebbero piuttosto “freddi” nei confronti del dato religioso, ma che introdotti in un mondo culturale plasmato di religiosità vengono affascinati proprio dalla gestualità buddista, giungendo in certi casi a diventarne sostenitori o addirittura praticanti. Per la mentalità secolarizzata dell’Occidente, segnato da un progressivo allontanamento dalla pratica cristiana e dal prevalere del pensiero tecno-materialista, è in qualche modo utile entrare in contatto con culture che hanno seguito un percorso diverso. Può essere che tale incontro aiuti a riscoprire il profondo valore della dimensione spirituale e serva d’incoraggiamento a ricuperare il valore del linguaggio simbolico della liturgia.
P. Giorgio Marengo IMC
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