Come fare? Prima di tutto non possiamo capire una cultura applicando pari pari i criteri di interpretazione che funzionano a casa nostra. Bisogna conoscere quel mondo “a pelle” o per lo meno avvicinarsi con tanta umiltà, per capire quali sono gli elementi che toccano in profondità il cuore di quel popolo. E avere pazienza e aspettare a giudicare.
Vi porto alcuni esempi della mia esperienza nella Corea del Sud.
Quando qualche visitatore straniero interessato al discorso dell’inculturazione passa da noi in Corea, sovente fa questa osservazione: “Ma perché nelle chiese coreane usano i banchi e si inginocchiano come in Occidente? Non sarebbe più logico che tutti si sedessero per terra su un grande tappeto?”
Voi cosa ne pensate? Giusto? E invece no: sbagliato! Qui il “rito” è il punto di riferimento fondamentale. Non possiamo ridurre la cultura agli elementi esterni. Per il Coreano non importa pregare a testa in giù e gambe in su. L’essenziale è che i riti siano fatti in modo impeccabile. La profonda influenza del confucianesimo, che cerca l’armonia perfetta dei riti per mantenere l’armonia sociale, fa sì che in ogni cerimonia prete, chierichetti e fedeli si comportino come a una parata militare e che le liturgie siano “più romane che a Roma”.
Ci sono poi elementi non razionali che non si possono imparare e che a noi stranieri sfuggono completamente, come il “Nunci”, l’occhiata! È qualcosa di profondamente radicato nella psiche locale e che si impara a livello emotivo nei primi anni di vita. È come uno spintone emozionale che solo chi è cresciuto in una famiglia coreana può percepire. Vediamo una persona dare un’occhiata e l’altra improvvisamente cambiare comportamento. Noi non capiamo cosa sia successo ma di fatto c’è stata qualche mancanza di etichetta o di rispetto che deve essere subito riparata.
Qui è importantissima la gerarchia, sempre a causa del buon Confucio. Noi non possiamo dire fratello o sorella, ma dobbiamo sempre specificare “fratello maggiore” o “sorella minore”, e anche il vocabolo corrispondente è diverso. Un nostro ex-seminarista era gemello, ma siccome lui era quello venuto alla luce per primo, era considerato il fratello maggiore, e il suo gemello doveva obbedire a lui e stare sottomesso a lui. Ognuno nella società ha un suo posto, con il ruolo che ne deriva. E in ogni ruolo anche il carattere della persona cambia: ad esempio, un uomo è il re supremo nella sua piccola ditta, ma diventa tutto umile davanti al parroco che è il capo della parrocchia. In casa tutto ciò che riguarda l’educazione dei figli e le cose interne sono affidate alla moglie, lui di per sé è “sposato” alla ditta. Uno ha tante personalità quanti sono i suoi ruoli. Questo è l’esoscheletro che ha tenuto in piedi questa società per migliaia di anni e merita tutta la nostra ammirazione e rispetto. Ci vorranno generazioni prima che il Vangelo penetri pienamente in tutte le relazioni.
Qui, come in gran parte dell’Asia di matrice confuciana e indiana, manca il concetto di persona. Uno non vale di per sé, perché creatura unica di Dio, ma per il ruolo che ha nella società. Quando le suore di Madre Teresa confortano un anziano moribondo, non fanno solo un atto di carità ma stanno sparando un proiettile d’argento nel cuore della cultura asiatica! Perché stanno dicendo: “Ti amo perché sei figlio di Dio. Non per la tua casta, il tuo ruolo, il contributo che puoi dare alla società o il peso che puoi avere nella ridistribuzione delle risorse”.
Anche una lettura femminista della realtà va presa con le molle. È verissimo che qui la donna ha ancora bisogno di un grande cammino di emancipazione. Quante volte abbiamo sentito le giuste lamentele di suore che lavorano nelle parrocchie sotto un parroco coreano e si sentono oppresse e non considerate. Certamente questo è un Paese democratico ma ciò che noi consideriamo diritti umani di base qui, nel quotidiano, sta solo entrando adesso. La stessa suora però quando si trova in un ruolo di comando, si comporta esattamente come il parroco. È a causa del confucianesimo che è ancora il modello base di ogni comportamento e relazione.
L’Asia non è un grande calderone di contemplativi come siamo abituati a pensare. L’area d’influenza confuciana (Cina, Corea, Giappone, Taiwan, Vietnam e diaspora cinese), ha un approccio molto più pragmatico alla religione, con forti differenze locali ovviamente. È l’area di influenza indiana che è invece quella più contemplativa. A questo poi bisogna aggiungere il buddismo, che sconvolge le nostre categorie, perché nella pratica si potrebbe dire che per i monaci è una filosofia e per i laici è una religione. Senza dimenticare che l’influenza dello sciamanesimo è fortissima ovunque. Ecco che ci troviamo davanti a una grande complessità e non sempre il modo in cui siamo abituati a capire il nostro mondo si può applicare qui.
La cultura non è qualcosa di fisso da contemplare dietro una teca di vetro in un museo. Cambia continuamente e lo si nota specialmente nei giovani che stanno assorbendo valori (o disvalori) occidentali e creando una nuova cultura giovanile in Asia.
Se, come diceva Eraclito, nessuno può bagnarsi due volte nella stessa acqua di un fiume che scorre, così nessuno può immergersi due volte di seguito nella stessa cultura. Perciò la critica che si faceva ai missionari negli anni 60-70: “Voi andate a cambiare la cultura di quei popoli!”, ha senso ormai solo in un museo. Ci sono popolazioni dove, anche se il missionario non è ancora arrivato, è già arrivata la Coca Cola! Una cultura è viva solo se interagisce e sa integrare elementi nuovi. È il frutto di scelte fatte in ogni momento da innumerevoli individui. Porta in sé anche il peccato dell’uomo e come tale va evangelizzata alle radici.
Nel mondo globalizzato la missione diventa perciò la gioia di interagire con chi è diverso da noi perché lo riconosciamo come figlio del nostro stesso Padre!
di GIAN PAOLO LAMBERTO, IMC
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