Cominciamo una rubrica che ci porterà a conoscere alcuni popoli dell’Amazzonia, quell’immensa foresta denominata il “polmone verde” del mondo, abitata da numerosi popoli indigeni che, forse per il fatto di vivere in ambienti lontani e isolati, non si conoscono nemmeno per nome. Penso che questo è il caso degli Harakbut, una tribù amazzonica che vive nel Perù, ma non è un caso che inauguriamo questo spazio con loro: due esponenti Harakbut, Héctor Sueyo e Yésica Patiachi, si sono rivolti a Papa Francesco in Puerto Maldonado, il 19 gennaio 2017, durante la sua visita al paese, con parole intense e commoventi: “Siamo riconoscenti e contenti perché sei venuto a visitarci da tanto lontano. Oggi ti sei ricordato dei più overi” (Yesica). L’incontro di Puerto Maldonado ha dato inizio a un cammino in preparazione al Sinodo Panamazzonico che si terrà quest’anno.
Ma passiamo, adesso, a conoscere un po’ più da vicino gli Harakbut: il nome significa, nella loro lingua, “gente”, “persone”, come spesso si riscontra nei nomi nativi. All’ultimo censimento risultarono 8055 Harakbut, che vivono sulle rive del fiume Madre de Dios e Inambari: come tutti i popoli amazzonici la relazione con il fiume è vitale e centrale. La loro lingua è unica, non ha parentela con altre, e ha vari dialetti, dei quali almeno tre sono in via di estinzione.
Gli Harakbut entrarono in contatto con gli Incas, nel secolo XV, quando l’impero andino voleva estendersi alle terre basse, ma senza successo: a causa del clima, delle malattie e della resistenza dei popoli della foresta, gli Incas non poterono dominare la zona. Un secolo dopo, gli spagnoli penetrarono nella selva del fiume Madre de Dios: anche loro trovarono la resistenza degli Harakbut e di altre tribù, per tanto la presenza coloniale fu secondaria nella zona. Il contatto traumatico con il mondo “bianco”, “moderno” fu nel secolo XIX, con il boom dell’estrazione del caucciù: i bianchi portarono malattie, sfruttarono la manodopera indigena al limite della schiavitù, e si calcola che il 90% della popolazione fu decimata. Come molti altri gruppi della foresta, per difendersi dalla letale presenza bianca gli Harakbut si addentrano nella foresta, in luoghi difficilmente accessibili.A inizio del secolo XX arrivano le missioni cattoliche dei domenicani: una figura di spicco è P. José Alvarez, che è ricordato con riconoscenza dagli Harakbut: “Lui aveva preso contatto con noi e per questo siamo ancora vivi” spiega Yesica a Papa Francesco, e gli dice che la sua presenza fa loro ricordare al venerato domenicano, che difese la tribù dalla presenza invasiva degli estrattori di caucciù.
Dagli anni Settanta del ventesimo secolo l’invasione bianca prende le sembianze dei cercatori e lavatori d’oro, e dei coloni che lo stato peruviano manda a coltivare la terra della zona. Dagli anni Ottanta gli Harakbut si sono organizzati con altre tribù per difendere i loro diritti e denunciare gli abusi. Dice Yesica: “Oggi vengono molti a tagliare gli alberi e a cercare oro, invadendo il nostro territorio senza consultarci. Moriremo quando gli stranieri perforeranno la terra per estrarre l’acqua nera metallizzata (il petrolio), soffrirermo quando saranno avvelenati i nostri fiumi”
Nonostante i dolorosi cambi, gli Harakbut hanno continuato la loro vita tradizionale. Negli ultimi anni hanno lasciato la tradizionale grande casa, la maloca, per abitazioni monofamiliari, anche se i membri della famiglia allargata tendono a costruire le case vicine e continuare a tessere relazioni forti e significative nel gruppo. Gli uomini sono preminentemente cacciatori con arco e frecce, mentre la pesca è un’attività condivisa da tutta la comunità. Tradizionalmente, l’agricultura è attività femminile.
La visione della realtà e della vita è cosmica: c’è un equilibrio, un’armonia a livello cosmico, che si può rompere per diverse cause, come la malattia. Molte volte si attribuisce la malattia alla stregoneria, allora gli Harakbut cantano certe melodie, chiamate eshuva, per chiedere l’aiuto degli spiriti ed esseri soprannaturali per poter ritornare all’equilibrio originario. Ma allo stesso modo, gli stregoni usano questi canti per causare la rottura dell’armonia.
Anche gli antenati sono considerati guide e compagni che aiutano nelle difficoltà, ed è significativo che tra gli antenati si ricordi anche il P. José Alvarez: “Lo spirito dei nostri antenati e lo spirito di Apagntone (nome Harakbut di P. Alvarez) è con noi. Ci dicono che lui era forte. Adesso che lo spirito dei nostri antenati ci accompagna, ancora resistiamo” (Yesica). Questo indica come la presenza cattolica dei domenicani è molto positiva, ed è un punto di riferimento per gli Harakbut, nella lotta alla sopravvivenza.
Quali sono le prospettive future per la tribù? A differenza di altri gruppi, sono ancora un’etnia numerosa (ormai moltissimi gruppi indigeni non superano alcune centinaia di individui), con una lingua viva, e possono essere una forza nella resistenza contro gli attacchi alla foresta, soprattutto nell’organizzazione cui partecipano in difesa dei propri diritti. Tuttavia, il governo peruviano non sostiene i gruppi nativi, anche se la maggior parte della sua popolazione è indigena. Purtroppo, gli interessi economici (estrazione del petrolio e dell’oro oggi, come ieri l’estrazione del caucciù) hanno sempre un peso maggiore sulle scelte politiche. La speranza è che il prossimo Sinodo Panamazzonico susciti nell’opinione pubblica un interesse maggiore verso i diritti dei popoli dell’Amazzonia, che si creino spazi di comunicazione e rivendicazione per i popoli della foresta, che la Chiesa prenda decisamente la parte degli Harakbut e degli altri popoli, e che il mondo riscopra l’armonia cosmica, l’equilibrio di tutti gli esseri viventi, a scuola da questi fratelli e sorelle che hanno conservato una relazione sostenibile con la foresta, invece di depredarla e distruggerla irreparabilmente.
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