
Il libro dell’Esodo sembra essere, tra le altre cose, un manuale del percorso di fede. Mosè ha trovato nel deserto un roveto che bruciava senza consumarsi (Es 3,2) e ha deciso di non disinteressarsene, ha avuto occhi e cuore per accorgersi di ciò che gli accadeva intorno e per lasciarsene coinvolgere (Es 3,3). Per questo Dio si è impegnato con lui in dialogo lungo, faticoso probabilmente per entrambi, al termine del quale Mosè è stato tentato di scappare (Es 4,13) ma che infine lo vede lasciare suo suocero e recarsi dal faraone per ottenere il permesso di far uscire dall’Egitto il popolo ebraico.
Non si tratterà di un cammino senza fatica: Mosè dubiterà e, quasi immediatamente dopo questo incontro, rischierà addirittura di morire (Es 4,24). Il testo biblico arriva persino a dire che è il Signore a cercare di farlo morire, quel Signore che ha fatto tanta fatica per convincerlo. È come se il testo dell’Esodo ci mettesse dalla parte di Mosè, che può persino sospettare di essere stato mandato a morire da Colui che pure sembrava aver insistito tanto per inviarlo in missione.
Nulla è mai chiaro al di sopra di ogni dubbio o paura, nell’uomo che segue Dio.
Un popolo spaventato
Ma un cammino simile dovrà percorrerlo il popolo, che seguirà le tracce di Mosè, sia pure in modo diverso.
Sa, ovviamente, di essere oppresso e perseguitato. Ha gridato al cielo la propria fatica e angoscia, senza saper invocare il nome di un Dio che aveva dimenticato (Es 2,23). Il popolo che era arrivato in Egitto affamato e vi aveva trovato il pane, non sapeva più chi lo aveva accompagnato fin lì. Può valere per qualunque persona: quando la situazione è più serena e positiva, possiamo anche avere un’insoddisfazione di fondo che però non viene a galla, riesce a essere soffocata. Ma quando stiamo male siamo costretti ad andare all’essenziale, ed è più semplice che emerga il grido di soccorso, che va in cerca di chi voglia ascoltarlo.
Ma non è semplice seguire le proposte di chi si presta attento alla nostra angoscia. In fondo, è proprio chi sta male che ha imparato a diffidare delle soluzioni semplici.
Mosè lo sa: starà sulla breccia per il suo popolo, il quale però è come se stesse alla finestra a guardare, senza sapere bene da dove aspettarsi la salvezza (come nel grido iniziale del Salmo 121: «Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto?»).
Promessa o inganno?
E quella salvezza intravista non si lascia in effetti subito interpretare come sicura prospettiva di vita: i primi prodigi davanti al faraone sono replicati dai suoi maghi (Es 7,11.22). E dopo, anche quando i maghi stessi riconoscono che all’opera c’è «il dito di Dio» (Es 8,15), anche quando i diversi flagelli colpiscono gli egiziani ma non gli ebrei (Es 8,18; 9,6.26; 10,23), questi si possono mettere come davanti a uno spettacolo teatrale, come dei testimoni neutrali che guardano che cosa succede.
Una notte, però, l’ultima notte trascorsa in Egitto, devono schierarsi.

Mosè annuncia che passerà l’angelo del Signore a uccidere tutti i primogeniti (Es 11,4-5); resteranno immuni soltanto gli ebrei, che saranno riconosciuti perché raccolti a celebrare la prima Pasqua liturgica, dentro a case custodite dal sangue di un agnello sparso sugli stipiti delle porte (Es 12,13). Non si può più essere spettatori: occorre prendere posizione, occorre schierarsi, occorre far capire che si è dalla parte del Dio di Mosè.
Accade lo stesso nella vita di qualunque credente, che può come restare alla finestra per un certo tempo, a contemplare ciò che opera Dio nella propria vita, ma deve poi decidersi, stabilire se concedere fiducia a questa promessa impensata oppure no. Ma bisogna perdere la propria neutralità, che non ci garantisce niente ma ci fa spesso sentire più al sicuro, tanto che a volte decidiamo di non sentire quella voce che ci promette la vera sicurezza e vita e libertà.
La tremenda sfida
E in quella notte di veglia (Es 12,42) davvero tutte le case d’Egitto piangono la morte dei loro primogeniti. Quella notte davvero il popolo riesce a partire, a sfuggire dalla schiavitù. Quella notte davvero gusta il sapore della libertà.
Anche se il faraone ci ripensa, decide di inseguirli.
E poco tempo dopo il popolo, un’enorme folla che comprende anziani e bambini e che viaggia su carri trainati da buoi, si trova inseguito da soldati che arrivano su cocchi trainati da cavalli. Arrivano armati, per far tornare gli schiavi ai loro lavori forzati o per ucciderli tutti.
Il popolo si trova davanti il mare, impossibile da attraversare, e dietro l’esercito egiziano. E non pensa che comunque quei pochi giorni di libertà valessero la pena di rischiare la morte. Anzi. Rimprovera Mosè di averli portati nel deserto contro la loro volontà: «Non ti chiedevamo forse di lasciarci stare schiavi, ma vivi?» (Es 14,11-12).
Anche a Mosè era successo: aveva iniziato ad ascoltare il Signore quasi da spettatore neutrale, come quella folla immensa che ha davanti, e poi aveva dovuto decidere di ascoltare quella promessa, anche se a fatica, e subito dopo si era trovato di fronte alla minaccia della morte.
Anche a noi succede: qualunque parola promettente che ci faccia balenare davanti la possibilità della nostra vita autentica, libera, realizzata ci vede dapprima spettatori distaccati, ma poi, per compiersi, ha bisogno della nostra decisione, del nostro prestarle fiducia. Se gli ebrei non fossero partiti con Mosè, non sarebbero mai stati liberati dal faraone. Ma non sarebbero, adesso, stretti tra il mare e il nemico. E loro, come noi, come Mosè, tutti rimpiangiamo quando ce ne stavamo tranquilli, nella noia opprimente della nostra infelicità soffusa.
Il mare
Gli ebrei erano un popolo di terra. Un popolo che dalla divisione, dall’ordine imposto, dalle regole precise, ricavava sicurezza e solidità. La legge di purità divide con precisione che cosa è bene fare e che cosa no; le leggi alimentari distinguono con esattezza che cosa si può mangiare e che cosa è impuro; la cucina di un buon ebreo separa le stoviglie utilizzate per la carne da quelle che servono per cucinare i latticini. E tutto ciò è per sintonizzarsi con il Creatore, che tutto conosce e distingue.

Ma nel mare non si può distinguere, non si possono tracciare linee e confini. Nel mare tutto si confonde e si perde. Un popolo abituato al deserto, come quello ebraico, nel grande mare si perde, in questa molta acqua che non sa dissetare percepisce solo la minaccia. Il mare è il caos, è il male, è la morte.
E la parola di Dio, che promette la libertà, invita a entrare in questo mare, che per il popolo d’Israele si è aperto. “Fidati, ti aspetto di là, e ci arriverai”. E a spingere ad entrare nel mare, come un muro da una parte e dall’altra, miracoloso ma minaccioso (come testimonierà la fine che farà l’esercito egiziano), è una promessa, nulla di più. Nessuna garanzia, nessuna assicurazione. Solo la parola di promessa di un Dio che parla di vita e libertà.
Per entrare in questa libertà e in questa vita, anche nella esistenza nostra, dopo aver iniziato ad ascoltare e aver iniziato a fidarci, dobbiamo compiere il gesto, porre le scelte che non ci lasceranno scampo, affidandoci soltanto a una promessa di vita. Restare di qua dal mare, non affrontare la sfida, significa rassegnarsi alla schiavitù dell’Egitto o alla morte per mano del suo esercito. Ma attraversare il mare, accettare la sfida, è spesso una scelta che promette la vita ma sembra negarla, sembra parlare di angoscia e di morte. La voce però ci chiama: “Fidati, ti aspetto di là, e ci arriverai”.
Angelo Fracchia