Tutte le tradizioni umane, comprese quelle religiose, amano esaltare i propri eroi, pensarli più belli, forti e bravi di quelli degli altri.
Nella tradizione biblica, però, succede qualcosa di strano. Guardiamo ad esempio Mosè.
Il re del mondo
La nostra prospettiva di lettori del xxi secolo è un po’ particolare… Proviamo a immaginare di guardare, ad esempio, una parodia del “Promessi Sposi” di Manzoni. Se qualcuno ci dicesse che in realtà quelle vicende erano state inventate da uno scrittore milanese del xix secolo, non lo guarderemmo straniti? Non gli diremmo: “Ma certo, lo sappiamo, altrimenti perché ci farebbero ridere?”. Eppure è ciò che a volte facciamo con la Bibbia: alcune di quelle pagine sono state scritte alludendo ad altri scritti che per noi però sono molto meno famosi, e, perdendoci l’allusione, perdiamo molto del messaggio.
Se ci raccontassero una storia in cui un bambino, per essere sottratto a una persecuzione, viene messo in una cesta di vimini resa impermeabile col bitume e affidato a un fiume, non penseremmo che sia stata copiata dalla vicenda di Mosè? Ovvio (Es 2,3).
Il punto è che anche quella storia era stata copiata, o, per meglio dire, riscritta alludendo a un racconto più vecchio. Quell’altro racconto, in cui il fiume non era il Nilo ma l’Eufrate, era molto ben conosciuto nell’antichità, e narrava la nascita di Sargon di Accad, il più grande imperatore “di tutto il mondo” prima di Alessandro Magno.
Raccontare così la nascita di Mosè significava lasciare intendere che questo bambino avrebbe ripercorso il cammino di Sargon, sarebbe stato l’uomo più importante dell’universo.
Dalle stelle alle stalle
D’altronde quel bambino sarebbe diventato un grande condottiero che avrebbe condotto il popolo eletto nel deserto per quaranta anni, avrebbe parlato con Dio faccia a faccia, avrebbe scritto la legge di Dio.
Eppure…
Eppure la sua vita sembra presto deragliare. Dopo essere stato salvato e allevato dalla figlia del faraone (Es 2,5-10), un giorno, ormai cresciuto, uscendo dalla reggia scopre che il suo popolo viene oppresso, e ne prende le parti aggredendo e uccidendo una guardia egizia (Es 2,11-12). Se può sembrare bene che Mosè prenda posizione a fianco degli oppressi, non si può negare che anche nel decalogo è previsto il divieto: “Non uccidere” (Es 20,13), e non si prevedono eccezioni.
E che Mosè non ne sia fiero è indicato da ciò che accade il giorno dopo: uscito di nuovo, prova a fare da paciere tra due ebrei, ma uno di loro gli fa capire di sapere dell’assassinio (Es 2,13-14). Lungi dall’approfittare di questa fama per farsi difensore del popolo, Mosè scappa nel deserto, fuori dall’Egitto (Es 2,15).
Il grande capo d’Israele è in realtà un assassino e un fifone.

Nel deserto, certo, riesce a trovare moglie, per cui si potrebbe pensare che la sua vicenda abbia un lieto fine. Ma dobbiamo notare che, benché sposi la figlia di un sacerdote, si tratta di un sacerdote madianita (Es 2,16-21), popolazione che non godeva certo di grande stima (non avevano fissa dimora né scrupoli: a una loro carovana era stato venduto Giuseppe: Gen 37,28-36). In più, non doveva trattarsi di un sacerdote molto ricco, se è costretto a mandare al pascolo non un servo ma le sue figlie, sottomesse alle prepotenze degli altri pastori (Es 2,17-18).
E che la situazione di Mosè non sia diventata particolarmente invidiabile è confermato dalla scena successiva: dopo il matrimonio, a pascolare il gregge del sacerdote madianita è Mosè (Es 3,1).
Una chiamata travolgente?
A questo uomo decaduto si apre però una possibilità e un’esperienza incredibile. Sarà almeno pronto a coglierla?
Mentre pascola un gregge non suo nel deserto (si tratta in realtà di una steppa semiarida: qualcosa da mangiare per le pecore c’è, anche se certo non molto), vede un rovo che brucia senza consumarsi, e si avvicina per capire che cosa stia succedendo.
Lì gli si presenta Dio, che lo invita ad andare a liberare dall’oppressione il suo popolo.
E qui accade l’imprevedibile: nella Bibbia non ci mancano esempi di profeti che reagiscono alla chiamata con faticosa generosità (Geremia: Ger 20,9) o addirittura con entusiasmo (Is 6,8). Riusciamo a immaginarci a parlare con Dio, che ci chiede di andare ad adempiere per lui un compito? Come reagiremmo?
Ebbene, il grande modello di profeta e legislatore dell’Antico Testamento inizia ad accampare scuse: “Ma io non sono nessuno!” (Es 3,11), “Non so neanche come ti chiami” (Es 3,13), “Guarda, di certo non mi crederanno” (Es 4,1), “Sono balbuziente” (Es 4,10). In tutta la Bibbia nessuno muove tante obiezioni alla chiamata di Dio!
Alla fine Mosè esclama quello che, alle nostre orecchie, può anche sembrare – finalmente! – un “sì”. E, nel nostro sconcerto, Dio, dopo aver finora risposto con calma a tutte le obiezioni di Mosè, perde la pazienza. Ci potrebbe sembrare strano, ma solo perché, al di là della traduzione letterale del testo, rischiamo di perderci quello che è sottinteso.
Può succedere anche a noi. Se in un romanzo italiano trovassimo scritto che “Luca e Paola avevano iniziato a uscire insieme”, tutti noi capiremmo che non si limitavano a trovarsi nell’androne del palazzo e uscirne fianco a fianco. Se in una lingua straniera si offrisse una traduzione letterale dell’espressione, potrebbe anche essere corretta, ma non lascerebbe capire che nell'”uscire insieme” noi intendiamo molto di più.
Così in Es 4,13: “Signore, manda chi vuoi mandare” a noi potrebbe anche sembrare un modo per dire “Sia fatta la tua volontà”. E invece no. “Manda chi vuoi mandare”, in ebraico, sottintende “tranne me”: “Manda un altro”. È come se Mosè dicesse che, sì, il progetto è interessante, Dio fa bene, però Mosè se ne tira fuori. Dopo aver esaurito tutte le scuse, dice semplicemente: “Guarda, io no!”.
C’è una morale?
Da questo modo di raccontare dell’Antico Testamento possiamo forse ricavare un paio di insegnamenti.
Mosè rimane l’eroe più fulgido del cammino con Dio. Ma non è un uomo perfetto. Perché per seguire il Signore non è necessario essere perfetti. Mosè è assassino, pauroso, umanamente un mezzo fallito e ha paura a fidarsi di Dio. Eppure è l’unico che gli parlava faccia a faccia.
E il suo percorso non è stato lineare neanche in campo religioso, ha faticato a lasciarsi convincere.
Per essere esemplari, dice la Bibbia, per compiere appieno il nostro cammino con il Signore, non dobbiamo essere straordinari, perfetti, eccezionali. Dobbiamo essere noi, lasciarci coinvolgere, anche se con fatica, e imparare, un passo alla volta, a fidarci.
E l’altro insegnamento riguarda proprio il percorso religioso: a essere straordinario, nella vicenda di Mosè, non è quel bambino affidato al Nilo, nonostante tutta l’esaltazione di lui che si possa fare (e che è stata fatta). A essere straordinario è Dio. Che rimane lo stesso anche con noi.
Angelo Fracchia