La crisi venezuelana alla luce della storia contemporanea del paese
Difficile analizzare la crisi venezuelana. Le letture manichee abbondano. Da una parte, i giornali conservatori e liberal – in un’insolita alleanza – dipingono il governo come l’ultima dittatura comunista e l’opposizione, frammentata in una molteplicità di 15 partiti, dai più differenti programmi e propositi, come “paladina” della libertà. Dall’altra, i media più spiccatamente di sinistra interpretano la crisi come un “déjà vu” del pre-golpe cileno quando, negli anni Settanta, gli Usa alimentarono gli scioperi per indebolire l’esecutivo socialista di Unidad Popular e, poi, sostennero l’intervento feroce di Augusto Pinochet.
La questione è, però, più complessa. Lo scontro tra governo e opposizione sul voto dello scorso 20 maggio ne è a malapena la punta dell’iceberg. Quel giorno, i cittadini sono stati chiamati a scegliere i rappresentanti delle principali istituzioni, presidente e Parlamento inclusi. La consultazione non ha però portato a un rinnovamento ai vertici: la maggior parte dell’opposizione ha scelto di non partecipare per la mancanza di sufficienti garanzie democratiche. Il verdetto delle urne ha così confermato e rafforzato un sistema di potere fortemente screditato. Il rischio di una rivolta – dopo l’ondata di proteste della scorsa primavera e estate, costata la vita ad almeno 120 persone – è concreto. Tali fermenti sono, però, l’ultimo atto di un conflitto di lungo corso. Tra i due modelli “classici” della politica latinoamericana: populismo antiliberale e liberalismo antidemocratico (in cui quest’ultimo termine va inteso in un senso sostanziale più che formale). Un confronto che in Venezuela s’è acutizzato negli anni Novanta. Cioè quando la Guerra fredda – e i suoi “danni collaterali” nel Sud del mondo – era ormai archiviata, nonostante nel Continente sopravvivesse, non proprio in modo brillante, l’isola della Revolución: Cuba. Sul crinale di questo passaggio d’epoca si colloca Hugo Chávez che ne è prodotto e acceleratore. L’ex parà, eletto presidente nel 1998, s’è presentato come “l’uomo nuovo”, rispetto al sistema che dal 1958 aveva retto il Paese. Dal termine della dittatura di Marco Pérez Jiménez, un patto tra i principali partiti nazionali – democristiani e socialdemocratici – aveva permesso una ripartizione “consensuale” del potere e della rendita petrolifera. Con annessi meccanismi distributivi basati su clientelismo e aiuti compensatori. Un meccanismo incapace di garantire i diritti fondamentali, civili e sociali, della maggior parte dei cittadini. Chávez, dunque, non ha incontrato grande resistenza nel demolire il “vecchio sistema”.
Ben presto, però, la tensione tra la “volontà popolare” – di cui il presidente si è autoproclamato unico, legittimo interprete – e i contrappesi istituzionali propri di una democrazia, per quanto malandata, si è fatta stridente. Le sue riforme – la possibilità di rielezione indefinita, la creazione di poteri paralleli, in ambito poliziesco, sindacale, politico, a quelli tradizionali – hanno reso le istituzioni vuoti simulacri, senza, tuttavia, mai negarle. La compressione di diritti civili classici è stata evidente: dalle multe e ritiro delle licenze ai media critici, ai licenziamenti arbitrari di funzionari poco compiacenti, fino agli arresti arbitrari di rivali politici.
In cambio, però, con il prezzo dell’oro nero alle stelle, Chávez ha garantito sussidi alla gran parte di popolazione dimenticata nei decenni precedenti. Le “misiones”, campagne di aiuto governativo sono riuscite a ridurre la povertà di venti punti percentuali e a dimezzare l’analfabetismo. Garantendo, al contempo, al presidente la fedeltà incondizionata dei beneficiari, cioè una quota consistente della popolazione. Parallelamente, il governo ha ampliato la macchina amministrativa, facendo lievitare la corruzione. La capacità produttiva si è contratta, costringendo il Paese a importare praticamente tutto, dal cibo ai manufatti. Poco male fin quando c’era stato l’oro nero con cui fare acquisti.
Dal 2013, però, il prezzo del greggio ha cominciato a calare. Ora un barile vale cinquanta dollari, meno della metà del valore avuto nell’età dell’oro del chavismo. Un colpo basso per qualunque Paese petrolifero. Nel caso venezuelano – in cui la diversificazione è quasi inesistente – si è trattato di una ferita letale per l’economia e l’impalcatura politica da essa sostenuta. La mancanza di liquidità ha costretto il governo a ridurre le importazioni. Dato che la produzione nazionale è alquanto dissestata, nei negozi hanno cominciato a scarseggiare i beni di prima necessità. Fino all’attuale semi-assenza di cibo e medicine. Mentre il prezzo dei pochi articoli disponibili è salito alle stelle.
La situazione sociale è disperata: tutti, tranne una sparuta élite che accede ai dollari controllati dall’esecutivo, sono costretti a code estenuanti per procurarsi gli alimenti base. Gli ospedali pubblici rimandano i pazienti a casa per l’impossibilità di curarli data l’assenza di medicine, cotone, aghi sterili, sutura. In questo momento tanto “sensibile” s’è verificato il cambio al vertice prodotto dalla morte di Chávez. A cui dall’aprile 2013 è subentrato l’erede Nicolás Maduro. Un politico senza alcuna qualità tranne la fedeltà al defunto caudillo. Incapace, dunque, di gestire la drammatica crisi. Dal 6 dicembre 2015, quando alle politiche l’opposizione ha ottenuto la maggioranza in Parlamento, nel Paese, inoltre, s’è scatenata una “guerra civile istituzionale a bassa intensità”. Lo scontro fra i due poteri – esecutivo e legislativo – è stato costante. Le leggi approvate dall’Assemblea sono state sistematicamente invalidate dalla Corte Suprema, fedele al presidente.
Mentre i parlamentari hanno più volte cercato di sottoporre Maduro alla procedura di impeachment. Alla fine, lo scorso 30 luglio, nonostante le proteste, il governo ha insediato una nuova Costituente, che ha esautorato il Parlamento. A che cosa si deve una simile resistenza? Secondo il politologo statunitense Steven Levitsky, il paradosso venezuelano consiste nel fatto che il chavismo è troppo autoritario per convivere con istituzioni democratiche. In particolare, gode tuttora – nonostante il crescente malessere – del sostegno delle Forze armate, a cui sono stati concessi enormi benefici nella gestione dell’economia. Al contempo, però, il governo è troppo debole per poterli abolire senza collassare. La battaglia, dunque, va avanti con estenuanti tira e molla. A spese della popolazione.
Lucia Capuzzi
questo articolo è stato pubblicato su Andare alle Genti
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