
Esegesi: 2 Cor. 12,9-10
“9… la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza…. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. 10 Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte”.
Iniziamo la lettura del brano partendo dal versetto 1 perché ci introduce nella comprensione dello spessore teologico di questo testo; uno scritto che ci inserisce nel cuore della mistica della croce: centro del mistero di Cristo.
Esegesi 2 Cor 12,9
- 9a La mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza
In questo testo Paolo descrive la debolezza, come il luogo dove si manifesta la potenza di Dio. La debolezza, secondo il concetto paolino sarebbe come un limite, qualche cosa di mancante che, proprio perché insufficiente, ha la possibilità di accogliere qualche cosa d’altro. Da ciò si percepisce perché il Signore non soddisfa la richiesta di Paolo di liberarlo dal limite (una spina nella carne” lo chiama Paolo) perché gli vuole rivelare qualcosa di assolutamente inimmaginabile: la debolezza della creatura e di ogni realtà umana, può essere il luogo in cui si esprime in pienezza la potenza di Dio!
Per noi è difficile cogliere il senso profondo di questa verità, perché la nostra mente va spontaneamente in altra direzione, forse esattamente il contrario.
Noi vorremmo essere forti, capaci, virtuosi, diversi… e crediamo che il Signore debba concedere questo.
Crediamo di voler essere come servi “utili” per un Regno che si estenda sempre più; in realtà siamo più preoccupati della nostra “gloria” che non di quella di Dio… .
La potenza di Dio, invece passa attraverso la vulnerabilità della persona umana: ci ha salvati attraverso la debolezza del Figlio Crocifisso Risorto, e da allora continua a operare la salvezza tramite la debolezza di chi riconosce la propria fragilità e impotenza, di chi si sente continuamente generato dalla sua misericordia, da un amore che va oltre ogni umana comprensione e si rende donazione totale come il Figlio in croce.
Quando noi riusciamo a scoprire e ad accogliere la nostra propria fragilità, la nostra povertà e impariamo a viverla e a integrarla, allora possiamo divenire luogo e strumento della potenza di Dio, e questo sia a livello personale che comunitario.
Paolo ha vissuto fino in fondo questa esperienza e soffre come nessun altro di essere debole, ma è contento perché si riscopre ogni giorno come un peccatore nel quale agisce la grazia: più ha coscienza di essere peccatore, maggiore e più efficace è in lui l’azione divina.
Ha accettato di essere debole e povero e si ritrova ricco della potenza di Dio, di quel Dio che può tutto tranne una cosa: manifestare la sua potenza in chi si sente giusto e forte.
v.9b «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze…»
Paolo era molto fiero di sé e dei propri titoli: «Circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge » (Fil 3,5), apostolo non meno di altri, di chi si ritiene «superapostolo» (1Cor 11,5ss). Poi il cammino faticoso della costatazione della propria debolezza, la supplica a Dio perché la cancelli, il non esaudimento da parte del Signore, e infine il vanto, questo misterioso vanto di costatarsi debole, povero, limitato. È il “Magnificat'” di Paolo!
- Siamo capaci di accogliere e ringraziare per il nostro limite?
Paolo vive la propria povertà, fisica o personale come abbandono di sé, come speranza, come ridimensionamento di una certa sua immagine e scoperta della propria dignità tutta nascosta con Cristo in Dio, e soprattutto come gratitudine perché proprio lì, dentro la sua debolezza, scopre la presenza e la potenza di Colui che può fare grandi cose, anche trasformare il male in bene, il peccato in redenzione.
v.9c «…perché dimori in me la potenza di Cristo»
Paolo sperimentando fino in fondo la propria impotenza scopre con sorpresa che se lascia agire Cristo questa presenza nella sua vita diventa potenza della croce che opera misteriosamente nel suo limite. Non è una presenza generica, è la potenza del Cristo Crocifisso che dimora in lui. Per questo dirà ai Corinzi «di non sapere null’altro in mezzo a voi che Gesù Cristo, e Lui Crocifisso» (1Cor 2,2), e non si stanca mai di rappresentare in maniera viva dinanzi agli occhi dei suoi fedeli, Cristo Crocifisso (Gal. 3,1), potenza di Dio e sapienza di Dio (1Cor 1,24), vanto di Paolo, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani.
Questo cammino di trasformazione è, anzitutto, esperienza mistica e sapienza della croce; è libertà di lasciarsi attrarre verso Colui che quando sarà elevato da terra attirerà tutti e tutto a sé (Gv 12,32).

Quando Paolo parla di debolezza vede sullo sfondo la debolezza del Crocifisso, usa infatti lo stesso termine: di Colui che «fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio» (2Cor 13,4) per sottolineare che questo scambio è avvenuto anzitutto in Cristo Gesù nell’evento della sua crocifissione e morte, luogo di debolezza e potenza, luogo dove il corpo di Gesù lacerato dal peccato, si trasforma in oblazione gradita, luogo dove è esplosa, luminosa, la verità che «la debolezza di Dio è più forte della sapienza degli uomini» (1Cor 1,25) perché la morte è stata ingoiata dalla vittoria (cfr. Liturgia pasquale).
Nel nostro cammino ciò significa che è il desiderio di essere come il Figlio il movente di tutto, ciò che può rendere desiderabile e attraente, anche per noi, il mistero della croce. Paolo, può dire con forza e convinzione: «Noi che siamo deboli in lui, saremo vivi con lui per la potenza di Dio...» (2Cor 13,4); vivere la debolezza come possibilità di vita perché so morire, so stare al secondo posto, so servire senza farlo pesare… perché altri abbiano vita, la comunità possa essere più serena, dimostra la carica missionaria della mia esistenza.
Attorno al mistero della croce trova senso ogni diminuzione ed anche la nostra, come singoli e come comunità…. perché questo mistero che si è compiuto, in primo luogo, nel Figlio obbediente e povero. In tal senso Paolo parla di essere debole “in” lui, di imparare a «portare sempre e dovunque la morte di Gesù nel nostro corpo perché anche la vita di Gesù sia manifestata nel nostro corpo» (2Cor 4,10), o a vivere la propria debolezza nello stesso modo in cui il Figlio ha vissuto sulla croce la debolezza sua e dell’umanità, quella dei suoi apostoli e dei suoi crocifissori, del buon ladrone e di chi lo sfidava a scendere dalla croce (Mt.27,40s).
Come la potenza del Padre “dimora” nell’Apostolo attraverso la sua identificazione col Figlio, anche la nostra povertà e i nostri limiti diventano capacità di dono, potenza di amore, salvezza dell’umanità, diventano missione.
E’ interessante notare come in questo testo, per indicare che la potenza di Dio dimora nella debolezza, si usa lo stesso verbo usato per designare la presenza della Gloria di Dio nel tempio, termine che Giovanni usa per significare la presenza di Dio tra gli uomini. Come Cristo sulla croce dimora e manifestazione della gloria e della potenza dell’amore del Padre che si manifesta nella Resurrezione, così Paolo accetta fino in fondo di essere debole e offre le sue membra perché si compia nella sua vita quel che manca alla passione di Cristo per diventare incarnazione della gloria di Dio.
v.10 «Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte»
Per tutto ciò che abbiamo detto sopra Paolo giunge a compiacersi di ciò di cui una persona non si compiace: malattie, violenze, offese, aggressioni, sofferenze… ma con una caratteristica ben precisa: tutto sia sofferto per Cristo, con la coscienza di partecipare del Figlio Crocifisso Risorto. Per Paolo, ormai, vantarsi di Cristo o vantarsi delle sue proprie debolezze è la stessa cosa. Per questo esiste un solo vanto: «Chi si vanta, si vanti nel Signore!» (1Cor 1,31)
Lasciandoci attrarre dalla croce, lasciandoci purificare interiormente da ogni traccia di autosufficienza e presunzione, lasciandoci lentamente trasformare nel Figlio obbediente, povero e Crocifisso, saremo capaci di martirio perché la Croce di Cristo diventerà la misura del nostro amore e della nostra missione. Infatti il punto di arrivo di questo percorso è fare quel che Lui ha fatto, è caricarsi sulle spalle il male e la debolezza dell’altra/o, della chiesa, dei nemici, della realtà intera…, per far vivere l’umanità. Questa diventa la dimensione missionaria per eccellenza a cui siamo chiamati anche nel mistero della nostra fragilità.

Paolo diceva con convinzione: «Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino a oggi» (1Cor 4,9-13).
Credere che questo percorso è l’unico possibile per rispondere con coerenza al progetto di Dio su di noi è questione di fede e di fedeltà a un amore che ci sprona al dono totale di noi stessi fino a dare la vita.
Come vivo i tempi di croce che il Signore mi offre?
Come diventano in me tempi di redenzione e di salvezza?
Trasformo la mia croce in missione?
sr. Renata Conti MC