
Quando si tratta di ciò che noi chiamiamo “Antico Testamento”, la meditazione ebraica è spesso molto acuta e profonda, e non potrebbe essere diversamente. La meditazione, ma persino la liturgia.
Nella liturgia sinagogale si dà ovviamente molto spazio all’ascolto della parola di Dio. La Torà (i primi cinque libri della Bibbia, quelli che noi chiamiamo “Pentateuco”) viene letta per intero, di seguito, lungo un ciclo che copre uno o tre anni. Un secondo brano tratto dai libri storici o dai profeti è pensato per accompagnare quel brano della Torà. Gli altri “scritti”, ritenuti meno importanti, non vengono letti durante la liturgia sinagogale, a parte i salmi che sono utilizzati per la preghiera.
Ma c’è un’eccezione notevole. Cinque libretti, sparpagliati un po’ in tutta la Bibbia, vengono “aggiunti” alla preghiera in occasione delle cinque feste più importanti dell’anno, come un dolce speciale aggiunto a un menù di festa. Inoltre, diversi commentatori dicono che quei cinque libretti (in ebraico meghillòt) ritraggono, tutti insieme, il percorso di affetto vissuto dagli esseri umani lungo la loro vita.
L’amore dei giovani
È a Pasqua che si legge il Cantico dei Cantici, tutto incentrato a celebrare l’amore nuziale, fisico, passionale. Come la Pasqua, festa di eccessi, di scontri, di grandi paure e grandi salvezze. Così tutto è eccezionale, grande, nel tempo dell’amore giovanile, che «le grandi acque non possono spegnere né i fiumi travolgere» (Ct 8,7).
Il Cantico è entrato e rimasto nella Bibbia grazie a una lettura simbolica, perché avrebbe parlato dell’amore con cui Dio ama la Chiesa, e si tratta di una interpretazione ovviamente sensata. Ma, ammonisce un biblista, «offende l’amore tra un uomo e una donna chi crede che per trovare un senso religioso al Cantico occorra cercarvi altro».
Se il punto d’arrivo di un percorso umano sarà l’amore verso tutti, si è comunque nello spirito d’amore di Dio anche quando si ama solo una persona, anche quando l’affetto è legato al desiderio (che nella Bibbia non è negativo! Lo diventerà se non rispetta la libertà altrui).
Amore per la famiglia
La festa di Pentecoste, per tantissimi aspetti, completa quella di Pasqua. Per i contadini ebrei Pasqua era segnata dal raccolto dell’orzo, precoce ma meno nutriente, che in qualche modo prometteva quello del grano, a Pentecoste. Per la tradizione liturgica ebraica a Pasqua si dona la liberazione, a Pentecoste la Torà, che custodisce, mantiene e rende sensata quella liberazione. Per i cristiani a Pasqua Gesù risorge, rendendo possibile una vita nuova che però sarà completa solo con il dono dello Spirito Santo, a Pentecoste.

Nella liturgia sinagogale a Pentecoste si legge il libro di Rut, un gioiellino letterario. Rut è una straniera che sposa un ebreo, prima di restare vedova senza figli. La suocera la invita a tornare alla sua casa, dal momento che non ci sono altri fratelli che la possano rendere madre. Ma Rut preferisce lasciare la sua regione e spostarsi in Giudea per non abbandonare la suocera. E in Giudea troverà un marito inatteso e dei figli. La ciliegina sulla torta arriva nell’ultimo versetto, dove si svela che questa moabita diventerà nonna del grande re d’Israele Davide.
Il percorso della sinagoga invita a cogliere che il gradino successivo, dopo quello dell’amore per il coniuge, diventa quello per la famiglia, anche contro le attese culturali (dicono che sia raro l’affetto tra suocera e nuora! E ancor di più che la nuora sacrifichi la propria vita per non lasciare sola la suocera!).
Amore per il proprio popolo
Il 9 di ab cade d’estate (non sempre nello stesso giorno del nostro calendario). In quel giorno si celebra la distruzione dei due templi di Gerusalemme e diversi altri lutti di popolo.

In quel giorno, di ricorrenza anche religiosa anche se non possiamo certo dirlo di festa, si legge il libro delle Lamentazioni, un pianto sul tempio e sulla sorte del popolo.
Nel percorso di crescita dell’amore, si arriva all’affetto per la propria intera compagine umana, anche verso coloro che non si conoscono.
La mancanza d’amore
Verso la fine dell’estate il mondo ebraico celebra la festa delle Capanne: per una settimana si dovrebbe vivere in ripari di fortuna, ricordando il tempo del cammino nel deserto, quando gli ebrei (e Dio!) non avevano case stabili in cui vivere, ma montavano e smontavano ogni giorno una tenda. Ci si ricorda della propria fragilità e dell’importanza di confidare solo in Dio.
In questa festa si legge il libro del Qohelet, uno dei più sorprendenti e imprevedibili della Bibbia. In questo libro, infatti, si immagina che il re Salomone, rinomato per ricchezza, sapienza e pace, faccia un bilancio della propria vita. E si scopra senza punti di riferimento. Che cosa vale la pena di inseguire nella vita? La ricchezza è illusoria, la potenza anche, l’amore pure… tutto è “vanità”, o meglio “vapore”, che svanisce e non lascia nulla. Nella sua foga, l’autore arriva a chiedersi se sia poi diversa la sorte dell’uomo rispetto agli animali, o del giusto rispetto al malvagio… e ogni volta si dice che probabilmente tutto è “vapore”.
Sembra un uomo senza passioni, senza affetti, senza legami. E, nel percorso liturgico, dice che per l’essere umano arriva anche questo punto, quello in cui si ha la sensazione che l’amore sia inutile, sia insensato, non doni nulla… Sembrerebbe un inaridimento, un passo indietro, eppure la tradizione liturgica ebraica ritiene che sia un’ulteriore tappa nella crescita d’amore.
La sintesi di un amore che si dona
Intorno al nostro carnevale anche il mondo ebraico vive una festa che sembra ricordarlo, Purim. In questa festa i bambini si travestono e chiedono dolcetti alle case cui vanno a bussare… L’origine della festa sarebbe narrato dal libro di Ester: intrighi di palazzo spingono “il perfido Aman”, consigliere del grande re persiano, a vendicarsi di un altro consigliere, l’ebreo Mardocheo, del quale vorrebbe sterminare il popolo. Il decreto regio è firmato, si è tirato a sorte (con i purim, appunto) il giorno stabilito, tutto sembra deciso. L’unica speranza è legata alla regina, ebrea anche se con un nome mesopotamico, diventata regina quasi per caso, che è chiamata a intercedere per il suo popolo. Il problema è che nessuno può comparire davanti al re se non convocato, e lei non è stata convocata da tanto tempo. Dopo lunghi tentennamenti, decide di mettere a rischio la propria dignità e la propria vita per salvare i suoi connazionali.

Al termine di un percorso ancora complicato, gli ebrei otterranno il diritto di difendersi, nel giorno che era stato deciso dai purim, quello in cui i bambini ancora oggi bruciano un pupazzo con le sembianze del “perfido Aman”.
Il punto d’arrivo del percorso liturgico è un amore che si dona, contemporaneamente, al popolo, ai deboli, al proprio marito, in fondo anche alla propria dignità, recuperando insieme, e dentro a quei legami, il rapporto e l’amore con Dio.
Il percorso liturgico si ripete ogni anno, segno del fatto che, se si può immaginare la crescita dell’amore come un percorso verso l’alto, nessuna delle tappe precedenti è poco importante o passa di moda.
Siamo sempre persone chiamate a percorrere le tappe dell’amore “istintivo” (che non è un male; lo sarebbe solo se non fosse completato, col tempo, da altre forme d’amore), familiare, di gruppo umano, persino di assenza d’amore. Tutto è buono e tutto ci porta fino al vivere l’amore come un dono intenzionale e responsabile di noi stessi.
Angelo Fracchia