“Nihii papa Francesco”: 1.800 ettari di foresta nella riserva della Tambopata si chiamano così, “bosco papa Francesco”. Con questo regalo gli indios Amahuaka di Boca Pariamaru hanno voluto ringraziare il Pontefice per la visita, il 19 gennaio, a Puerto Maldonado. Quel giorno, nel Coliseo della città-porta dell’Amazzonia, Bergoglio ha incontrato i rappresentanti dei 350 popoli sparsi nei 5,5 milioni di chilometri quadrati di selva. Sono arrivati anche dal Brasile, dalla Bolivia e dall’Ecuador per l’evento storico: con un anno e mezzo di anticipo, si è aperto di fatto il Sinodo Panamazzonico, in programma a Roma nel 2019. Dato che le etnie parlano più di 200 lingue differenti, è stato necessario arruolare degli interpreti affinché potessero capirsi fra loro.
Francesco, per l’occasione, ha scelto di non celebrare alcun atto liturgico ma di ascoltare il “grido” dei popoli della foresta. In un luogo dal forte valore simbolico: nella regione di Madre de Diós, dove si trova Puerto Maldonado, “i gemiti di sorella terra si uniscono ai gemiti degli abbandonati del mondo”, come si legge nella Laudato sì. La zona è uno degli esempi più eloquenti di quanto devastazione ambientale e degrado sociale siano le due facce della stessa crisi. Là, la foresta è stata sterminata dalla fame di oro dell’uomo e le miniere, spesso, illegali, hanno rotto l’equilibrio naturale e sociale, senza produrre ricchezza per i locali. Dagli anni Duemila, il boom dei prezzi del metallo ha spinto nell’area una massa di disperati, provenienti dal Perù andino, il più povero.
Data l’assenza dello Stato, in breve le miniere artigianali sono diventate ostaggio delle mafie. Sono queste a garantire, a colpi di machete e fucile, la docilità della manodopera, il combustibile necessario per muovere le pompe aspiranti, la “sicurezza” e soprattutto i canali di contrabbando attraverso cui “l’oro sporco” fluisce – al costo di 35mila dollari al chilo – nel circuito delle grandi imprese di Usa e Europa, Italia inclusa. Il 22 per cento del metallo del Perù – sesto produttore mondiale – viene estratto a Madre de Diós senza che vi sia una sola miniera legalmente riconosciuta. Ma c’è di più. Le mafie hanno colto le potenzialità di espansione che avrebbe avuto “l’industria” del sesso a pagamento nella zona. Degli attuali 80mila minatori, distribuiti in otto punti di estrazione, quasi tutti sono giovani e soli. Per loro, i postriboli diventano l’unica forma per evadere da un lavoro massacrante e condizioni di sussistenza indegne. Insieme alla foresta – di cui ha ingoiato già 50mila ettari –, la febbre dell’oro brucia le vite di migliaia e migliaia di ragazzine, vendute e comprate nel mercato della prostituzione coatta. A La Pampa – la città che non esiste –, costruita a ridosso delle cave per alloggiare i minatori, si contano almeno 4mila schiave del sesso, distribuite in 130 “bar” clandestini.
Le miniere illegali d’oro sono una delle principali minacce per gli indios. Il metallo viene “lavato” con il mercurio: se ne impiegano 2,8 chili per ogni chilo d’oro. Il tutto finisce nei fiumi in cui pescano i 29mila nativi di Madre de Diós. La questione è stata denunciata nel manifesto che i rappresentanti indigeni hanno elaborato nei giorni precedenti all’incontro e poi hanno consegnato al Papa. Nello scritto, gli indios hanno voluto denunciare come la “fame di risorse” – il cosiddetto “neo-estrattivismo” – metta a rischio la sopravvivenza loro e della foresta, polmone del pianeta. Sono in cantiere oltre 250 dighe in Amazzonia che rischiano di alterare il delicato sistema fluviale della vasta regione. A queste si aggiungono venti progetti di costruzione di autostrade e 800 concessioni per l’estrazione di petrolio, gas e vari tipi di metalli preziosi in aree protette. Altre 6.800 richieste sono, al momento, all’esame.
La pressione è tale che negli ultimi anni, già il 17 per cento dell’Amazzonia è stato distrutto: al momento, si contano 31 “fronti caldi” di deforestazione. Ad alimentare i conflitti contribuisce il fatto che gli indios non abbiano la “concessione integrale” delle riserve assegnate. Non possono, cioè, sfruttare quanto contenuto nel sottosuolo, che viene dato in concessione ad altri privati. Questi agiscono in base alla logica della massimizzazione del profitto. Lo scontro con i “custodi della foresta” è scontato. Non sorprende, dunque, che Francesco abbia detto al Coliseo che i popoli indigeni non sono mai stati tanto minacciati nei loro territori come adesso. “Viviamo un momento drammatico. Per questo è tanto importante che Francesco sia venuto ad ascoltare le nostre sofferenze”, ha commentato Julio Cusurichi, presidente della Federazione nativi di Madre de Diós (Fenamad), che include 36 comunità della regione. L’attivista di etnia shipibo è stato insignito, nel 2007, del Premio Goldman, il cosiddetto “Nobel verde”. “I nativi non sono dei sopravvissuti del passato. Sono una ricchezza per il futuro. Non siamo contrari al progresso, tutt’altro. Vorremmo che le politiche pubbliche riconoscessero il nostro lavoro per uno sviluppo davvero sostenibile”.
“Voi con la vostra vita siete un grido rivolto alla coscienza di uno stile di vita che non è in grado di misurare i suoi costi. Voi siete memoria viva della missione che Dio ha affidato a tutti noi: avere cura della casa comune”, ha dichiarato, commosso, Francesco ai rappresentanti dei popoli nativi che, per il suo impegno nella difesa appassionata della foresta e dei suoi abitanti, lo hanno soprannominato “il nuovo Apaktone”. “Apaktone” cioè “papà anziano e saggio” era il nome che gli indigeni Harakbut avevano dato a padre José Álvarez Fernández, missionario domenicano, che, all’inizio del Novecento, li aiutò a superare lo choc prodotto dalla violenza dei “caucheros”, i cercatori di caucciù. “Nei decenni precedenti l’epoca d’oro della gomma, gli Harakbut erano stati perseguitati e sfruttati selvaggiamente. Il trauma era stato di tale portata da mettere a rischio la loro stessa sopravvivenza. Fu l’incontro con l’‘Apaktone’ a restituire loro speranza affinché potessero andare avanti”, sottolinea il vescovo del vicariato apostolico di Puerto Maldonado, spagnolo di nascita e domenicano come padre José Álvarez, di cui nel Duemila è stata aperta la causa di beatificazione.
“Ciò che l’Apaktone rappresentò per gli Harakbut nel momento più drammatico della loro storia, è ora Francesco per gli indios dell’Amazzonia”, dice monsignor David. Questi ultimi, ha detto il Papa, sono una fonte di ispirazione nella ricerca di modi di vivere più umani. Per tale ragione, nel salutarli ha detto: “Confido nella capacità di resilienza dei popoli e nella vostra capacità di reazione davanti ai difficili momenti che vi tocca vivere. Lo avete dimostrato nei diversi assalti della storia, con i vostri contributi, con la vostra visione differenziata delle relazioni umane, con l’ambiente e con l’esperienza della fede. Prego per voi e per la vostra terra benedetta da Dio, e vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie! Tinkunakama (che in quechua significa: al prossimo incontro)”.
Lucia Capuzzi
questo articolo è stato pubblicato su Andare alle Genti
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