
Nel Nuovo Testamento a scrivere più lettere è stato Paolo di Tarso. Non che scriva sempre, di solito lo fa quando è preoccupato o arrabbiato. Poi, certo, di tanto in tanto anche lui scrive da disteso e sereno. Capita ad esempio nell’intera lettera ai Filippesi, ma anche nel capitolo 8 della lettera ai Romani. Questa di per sé è una lettera scritta per giustificare il suo stile di annuncio, quindi ben delicata, ma, arrivato a quel punto, Paolo ritiene evidentemente di aver fatto un buon lavoro, di avere efficacemente dimostrato che noi siamo in armonia con Dio semplicemente perché Dio vuole così, ci vuole suoi amici ed è disposto a perdonarci tutto.
Finalmente, Paolo si rilassa e si scioglie in uno dei più begli inni della Bibbia. Questo mese è praticamente Paolo a parlare (o almeno, lo si può seguire passo passo).
Spirito e carne
Chi è in Cristo non è condannato (Rom 8,1). In passato si era cercato di compiere la volontà di Dio, la legge, con le proprie forze umane, con la “carne”, ma questo era impossibile, (8,3) perché era impossibile che un uomo si comportasse esattamente come Dio voleva e dunque si “meritasse” la sua amicizia. Dio ha però deciso di mostrare nel suo Figlio uno stile diverso (8,4): non si tratterà di essere perfetti, ma di lasciarsi permeare dallo Spirito di Gesù, di vivere come lui (8,5).
Vivere secondo la carne (8,6), in questo contesto, non vuole allora dire vivere nel peccato sessuale (la Chiesa spesso l’ha interpretato così), ma vivere pensando che ciò che facciamo ci guadagni l’amicizia di Dio, con strumenti umani, carnali. Paolo è convinto di essere riuscito a dimostrare che siamo in armonia con Dio, cioè salvi, grazie al suo dono gratuito e al nostro fidarci di quel dono, ossia tramite la grazia e la fede.

In Gesù scopriamo che anche Dio preferisce un’adesione a lui non formale, non fatta di perfezione ufficiale, ma sostanziale, di fiducia (8,7-8). In fondo, anche noi, quando siamo in relazione con qualcuno, siamo disposti a passare sopra ai difetti involontari, agli errori, ma chiediamo fiducia e dono di sé. Non sopporteremmo qualcuno perfetto ma che non sembra desiderare di stare con noi. Se però i nostri amici stanno volentieri con noi e noi con loro, passiamo sopra a tante imperfezioni! Dio spera nella nostra fiducia perché non ci pensa come servi ma come amici, anzi addirittura come figli.
Chi cammina nello Spirito è figlio di Dio
Non resta quindi che vivere secondo lo Spirito, senza pensare alle “opere della carne” (vale a dire senza pensare di fare il bene perché è stato ordinato, così che Dio ci premi: 8,12-13).
Se Dio ci chiama figli, è perché è con noi in una relazione intima, profonda, che non dipende dal fatto che facciamo o non facciamo il nostro dovere (8,14), ma dall’accoglierne l’amore gratuito, come un figlio che viene amato senza fare niente per meritarselo e prima di qualunque azione; al limite, il figlio potrà rispondere in modo adeguato a quell’amore. Questo è ciò che ci dice il vangelo, per quanto sia sorprendente: Dio ci ama, comunque.
Ma davvero questo è possibile? Davvero siamo figli di Dio? È di nuovo Gesù a dircelo, a farci pregare chiamando Dio come “Padre” (8,15), e in fondo lo sentiamo con la voce dello Spirito che parla dentro di noi.
Ma qualcuno dirà che siamo figli di Dio nel senso che veniamo da lui, che lui ci ha creati. No, dice Paolo! Siamo figli veri, anche se adottivi: se per assurdo il Padre dovesse morire, ci divideremmo l’eredità con Gesù (8,17), perché siamo figli come lui, anche se noi non lo siamo per natura ma per adozione.
Per questo non soffriremo per sempre.
La sofferenza odierna
Ancora, ma come è possibile? Davvero siamo figli di Dio? Noi soffriamo, siamo infelici, siamo incompleti. Come è possibile che Dio ci voglia così?
In realtà, non c’è paragone tra la nostra sofferenza di adesso e la forma che assumeremo in futuro (8,18). Saremo felici, saremo nuovi, nuove creature. Anzi, è la creazione stessa, come noi, che aspetta con ansia che noi diventiamo pienamente figli di Dio (8,19: l’immagine del verbo greco è di chi allunga il collo per anticipare anche solo di un secondo la visione di chi sta arrivando). Anche la creazione, infatti, non resta immutata per sempre, bensì marcisce, muore, e spera che il nostro diventare perfetti segni finalmente anche il suo restare viva per sempre, insieme a noi, che siamo i figli prediletti di Dio e che porteremo la creazione insieme con noi in paradiso (8,20-21).

Finora, però, tanto la creazione quanto noi non siamo ancora perfetti. È come se dovessimo ancora nascere (8,22). Nel parto c’è una sofferenza e un’incompiutezza che sembrano senza fine, ma che aprono la strada alla vita. Come un bambino nel grembo della madre, noi viviamo già, siamo già figli di Dio, ma in realtà non lo siamo ancora pienamente. Lo speriamo, lo intuiamo, lo prospettiamo, ma non lo abbiamo ancora del tutto. Il bimbo nel grembo è già una vita, ma non è ancora nato, anche se naturalmente nascerà e sarà autonomo. Così accadrà anche noi, e insieme a noi salveremo, rimetteremo in dialogo con Dio, anche la natura, che, dice Paolo, è come se non vedesse l’ora che noi diventiamo perfetti, per diventarlo anche lei con noi (8,23-24).
C’è di più: noi abbiamo accanto lo Spirito Santo, che prega con noi. Non perché lo Spirito sappia di che cosa abbiamo bisogno; probabilmente, invece, non lo sa neanche lui e non riesce ad esprimersi in modo compiuto (8,26). Il Padre però accoglie, ascolta, e compie il bene di chi è dalla sua parte, in quanto è esattamente ciò che lui vuole (8,27). È un’immagine inattesa, quello dello Spirito Santo, della presenza stessa di Dio nella nostra storia, che non sa bene di che cosa abbiamo bisogno, ma si mette al nostro fianco, gemendo come un animale che non sa come spiegare il proprio desiderio. Ma altrettanto inattesa e tenera è l’idea del Padre che quell’uggiolio lo trasforma in vita autentica, quella che serve agli uomini e che lui desidera per gli uomini.
Dio infatti da sempre ha voluto che gli uomini (che sono tutti da lui conosciuti…) assomigliassero a Gesù, per vivere bene (8,29), e li ha quindi chiamati ad essere, li ha messi in un rapporto “giusto” con lui, li ha riempiti di gloria (8,30). Insomma, per gli uomini che si lasciano amare da Dio, tutto va bene (8,28).
L’esito finale
Questo non vuol dire che non ci sarà nessun male che toccherà gli uomini nella storia, ma che nelle cose ultime, nell’esito di fondo, gli uomini vivranno bene, avranno la meglio. «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (8,31). Il Padre ci ha dato colui che amava più di tutto, suo Figlio: come potrebbe rifiutarci qualcosa d’altro (8,32)? Chi potrebbe muoverci delle accuse, in un eventuale processo? Dio dichiarerebbe che siamo giusti, perché lui ci ama (e perché “essere giusti”, in rapporto a Dio, significa essere in relazione con Lui, quella che vuole salvare a ogni costo: 8,33). Chi potrebbe condannarci? Il giudice del mondo, che conosce il mondo da dentro pur essendo Dio, dovrebbe essere Gesù: ebbene, lui per noi è morto e ora vive e cerca di spiegare le nostre fatiche e difficoltà a un Padre che già stravede per noi (8,34)!
«Chi ci potrà separare dall’amore di Cristo?» (8,35). L’amore vince ogni cosa, e l’amore di Dio ancora di più. Forse che se siamo affaticati, angosciati, perseguitati, affamati, nudi, in pericolo, uccisi, Dio ci amerà meno? Ma tutte queste cose Gesù le ha affrontate per noi, ci capisce. Addirittura, in tutte queste fatiche gli assomigliamo di più, gli siamo più vicini (8,37).

Eccolo, allora, il punto d’arrivo: che cosa potrebbe separarci dall’amore di Dio? Dio ci ama se viviamo, ma riesce ad amarci anche nella morte, da cui ci libera; le gerarchie angeliche, su cui tanto nell’ebraismo si era elucubrato, sono meno importanti degli uomini; nulla nel presente e nel futuro ci può allontanare da Dio (8,38).
Dio ci ama; ce lo ha mostrato definitivamente in Gesù. Se Dio ci ama, non dobbiamo avere più paura di niente, niente ci può infastidire se non momentaneamente. E Dio ci ama, quindi abbiamo davanti a noi soltanto la promessa della vita senza fine (8,39).
Angelo Fracchia