Perché la lettera ai Romani?

Il Nuovo Testamento è composto da quattro vangeli, un buon numero di lettere e un’Apocalisse. Tra le lettere, l’autore di maggior rilievo è Paolo di Tarso. La sua lettera più importante, lunga e difficile è sicuramente quella ai Romani.

 Chi era l’autore?

Paolo è una personalità all’altezza di questa sua lettera: un gigante! Non fisicamente (pare anzi fosse abbastanza piccolo), ma per le capacità della sua mente, allenata a vivere in più mondi diversi.

È infatti un ebreo, di quelli che conservano le tradizioni antiche: sa di venire dalla tribù di Beniamino (nel primo secolo dopo Cristo non erano molti gli ebrei che potevano ricostruire la propria genealogia antica), ha il nome del primo re di Israele, Saul, e approfondisce la sua fede andando a scuola all’estero, a Gerusalemme, da uno dei maestri più importanti e famosi del tempo, Gamaliele. È però anche un madrelingua greco, abituato alla retorica e alla filosofia, esperto di poesia, pieno cittadino di un mondo di commerci e scambi. Inoltre, eredita dal padre la cittadinanza romana, il più prestigioso e prezioso strumento di distinzione sociale e politica per chi non fosse nato in Italia. Infine, è anche un fabbricante di tende, ossia un artigiano, abituato anche al lavoro pratico, e a un lavoro che gli poteva consentire di viaggiare, in quanto doveva portare con sé pochi e leggeri strumenti del mestiere.

Perché scrive?

Paolo è noto per aver perseguitato i cristiani. A sentire gli Atti degli Apostoli, è stato il primo a perseguitarli in modo intenzionale e consapevole. Poi, durante un viaggio da Gerusalemme a Damasco, gli succede qualcosa e ne esce convinto che Gesù sia vivo e gli abbia parlato. Da quel momento inizia a mettere al servizio del vangelo la stessa decisione e determinazione che prima mostrava contro di loro.

Dio, infatti, non si sostituisce all’umanità, ma la porta a compimento e perfeziona: ecco che il Paolo ricco di sensibilità, di carattere e di formazione diventa un personaggio di primissimo piano anche da cristiano. A volte fastidioso, sicuramente non senza difetti (come molti geni, sa di esserlo e vuole che gli altri lo seguano e basta) ma anche prezioso.

E quando ad Antiochia nasce una comunità mista, di cristiani provenienti tanto dall’ebraismo quanto dal paganesimo, Barnaba capisce che per una situazione del genere serve un uomo come Paolo, e va a recuperarlo a Tarso (Atti 1,25-26).

Questa chiesa è la prima a organizzare dei viaggi per annunciare intenzionalmente il vangelo, e decide di destinare a questa missione due dei suoi quattro capi, ossia Barnaba e Paolo. Inizia per Paolo una vita nuova, di viaggi, predicazione, avventure, lettere per mantenere i contatti con tutte le chiese da lui fondate. In una prima fase di questo lavoro Paolo può contare sull’appoggio della chiesa di Antiochia: appoggio economico, certo (anche se lui si manteneva pure con il suo lavoro e se altre chiese lo aiuteranno), ma soprattutto di autenticazione. Se qualcuno, incontrando Paolo, poteva anche chiedersi se ciò che annunciava se lo fosse inventato lui, c’era però la possibilità di andare o scrivere ad Antiochia per chiedere conferme.

A un certo punto, però, Paolo dice in modo sempre più chiaro che la legge di Mosè non serve, e questo infastidisce diverse chiese, tra cui anche quella di Antiochia, che gli ritira il mandato. Che fare? Paolo potrebbe decidere di ritirarsi di nuovo in privato, oppure di predicare solo nelle chiese da lui fondate, dove sarebbe comunque ormai il benvenuto anche senza lettere di presentazione, oppure di trovare qualche altro sponsor. Ed è questa la strada scelta da Paolo, che decide però di mirare altissimo: la chiesa a cui chiederà sostegno sarà quella di Roma, che lui non ha fondato, che è fondamentale perché ospitata nella capitale, e che è composta in gran parte da cristiani provenienti dall’ebraismo, quindi in linea di principio un po’ insospettiti da lui.

Un rabbino cristiano all’opera

Come fare a farsi ascoltare e appoggiare? Paolo non può certo cominciare a dire che la legge mosaica non serve più. Infatti parte da lontano.

Inizia dicendo che Dio castiga i cattivi (Rom 1,19-32), il che può sembrare scontato. Poi aggiunge che chi vive da cattivo ma giudica gli altri (ossia sa che cosa sarebbe il bene, anche se non lo vive), sarà a sua volta castigato (2,1-8), perché Dio non può fare preferenze di persone: un ebreo non sarà premiato solo perché ebreo, a contare è come si vive (2,9-16). Infatti, chi sa che cosa è bene ma non lo fa, non è buono (2,17-24). Ovvio, secondo chi viene dall’ebraismo a sapere che cosa è bene per Dio non può che essere un ebreo, ma Paolo dice che questo non conta; importa invece l’essere ebrei dentro, il vivere da ebrei, non l’essere semplicemente nati così (2,25-29). Fin qua anche i peggiori critici di Paolo sarebbero d’accordo. Ma, aggiunge allora, la scrittura ebraica dice che tutti gli uomini sono menzogneri (3,1-8, in particolare il v. 4), sono tutti cattivi. E se allora tutti hanno peccato (3,9-18), le conseguenze possibili sono due: o tutti saranno condannati, oppure Dio deve avere in serbo qualcosa di diverso.

Ed è esattamente ciò che succede con Gesù: dall’inizio alla fine della sua missione, dice e fa capire che Dio vuole che tutti vivano, e vivano bene, ossia che siano salvati. Per portare avanti questo messaggio Gesù arriva a morire in croce: piuttosto che pensare a sé, piuttosto che chiudere la porta agli uomini, Dio si lascia uccidere. E se invece volessimo accoglierlo, che cosa dobbiamo fare? Proprio il fatto che Gesù arrivi a morire in croce senza smettere di voler incontrare gli uomini significa che per avere questa salvezza, per vivere in comunione con Gesù, non dobbiamo fare niente. La legge indicava cose buone, ma gli uomini non sono stati capaci di compierla (come testimonia la legge stessa); potevamo pensare che quindi saremmo stati castigati, ma Dio, in Gesù, mostra di volerci accogliere e perdonare lo stesso. Allora a noi spetta il compito semplicemente di accogliere il dono gratuito di Dio. Anche quella legge, quindi, che pure non diceva cose cattive, risulta inutile, non serve più. E se è inutile, se non c’è da fare niente ma solo da lasciarsi amare, non c’è neanche bisogno che io sia libero di agire e di scegliere. Ecco perché davanti a Dio non c’è più nessuna differenza tra ebrei e non ebrei, uomini e donne, schiavi e liberi (questa formula è di Galati 3,28, ma l’idea è anche in Romani 3).

Paolo si dilunga quindi in tante considerazioni utili ma più interessanti per chi viene dal giudaismo, finché, nel capitolo 8, canta la sua festa per un Dio che ci toglie la paura. Ma quel capitolo meriterebbe una lettura a parte.

Una postina speciale

I capitoli dal 9 all’11, a loro volta, sono una riflessione profonda e difficile sul destino di Israele, che non sembrerebbe avere più privilegi rispetto ai non ebrei e che non pare aver accolto Gesù. Quindi, alcuni capitoli sono dedicati a raccomandazioni più pratiche.

Un passaggio curioso e affascinante è dedicato, all’inizio del capitolo 16, a Febe. Di costei si dice che è “diacono” (al maschile) di Cencre, il porto occidentale di Corinto. Perché non usare la forma al femminile, “diaconessa”, che esisteva? Secondo alcuni biblisti è perché “diacono” qui indicherebbe già un incarico ufficiale (così come parliamo di “architetto” anche per una donna). In una funzione di rilievo in una chiesa di Corinto sarebbe stata dunque nominata una donna, persona stimata anche perché la missione che Paolo le affida è delicata.

Se Paolo infatti raccomanda ai romani che la accolgano (Rom 16,1-2), è perché lei sta arrivando a Roma con la lettera, ossia fa da postina. I “postini”, però, non si limitavano a portare le lettere. Normalmente portavano notizie, le leggevano, le spiegavano. Spiegare la lettera ai Romani, però, tanto complessa e delicata, non era cosa da poco. Paolo non manda un Timoteo, un Sila, uno qualunque dei suoi collaboratori più stretti; manda Febe, una donna, già con un incarico importante nella chiesa di Corinto. Evidentemente, se ne fidava molto.

Non sappiamo che effetto ebbe la lettera. Non sappiamo, di preciso, se Paolo ottenne da Roma ciò che cercava. Ma sappiamo che, grazie a quello che per lui è stato un intoppo grave, ci ha regalato un documento complicato e prezioso, che ci chiarisce come del Dio di Gesù possiamo fidarci a prescindere, senza bisogno di aver prima fatto alcunché: Dio ci ama non per come ci comportiamo, ma perché ci ama. E non ha intenzione di cambiare. A noi decidere se accogliere o no questo amore.

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