“Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti da me” (Gen 18,3) sono le parole con le quali Abramo saluta i tre viaggiatori sconosciuti alle Querce di Mamre. Parole di invito che diventano supplica ad accettare l’ospitalità offerta. Nel mondo del nomade, offrire ospitalità è tanto importante quanto accettarla. Da quando siamo arrivati in Mongolia, molte volte siamo stati invitati a visitare le famiglie nelle loro gher (tenda tradizionale dei nomadi) e sempre ci stupisce la loro grande apertura e accoglienza. È una caratteristica così forte in questo popolo che non si può fare a meno di chiedersene la ragione.
All’inizio di quest’anno, ad Arvaiheer era arrivata una donna, con i suoi due piccoli figli, che scappava da una situazione difficile in famiglia. Nel paese nessuno la conosceva, giacché, se ci fossero stati dei parenti o amici, l’avrebbero accolta loro. Arrivata di notte, bussa alla porta di una famiglia, la quale accoglie tutti e tre gli ospiti nella gher, non solo per quella notte ma per quasi tre settimane, il tempo necessario per trovare una soluzione alla loro situazione. In poco tempo tutti in paese vengono coinvolti, certamente salvaguardando la vita privata della giovane signora, e tra autorità e vicini si forma una catena di solidarietà. Anche noi siamo chiamati a intervenire e abbiamo sperimentato che l’ospitalità esiste in primo luogo per custodire la vita. Sì, nel contesto nomade, chiudere la porta a chi passa può significare mettere l’altro a rischio della propria vita. Infatti in un Paese dove nell’inverno si arriva a temperature di -30°, negare l’ospitalità equivale lasciare l’altro esposto a morire di congelamento. Allo stesso modo, negare rifugio a chi fugge significa esporlo a pericoli non insignificanti.
Il primo beneficio dell’ospitalità è il rinforzo delle relazioni esistenti e la creazione di nuove. L’altro è sempre un dono, arricchisce la vita anche se lo si incontra solo per una volta. Ricevere l’altro è un onore e ogni incontro una benedizione. Questi sentimenti vengono poi espressi in gesti concreti e così ogni visita, specialmente in una famiglia nomade, si inizia con delle formalità che sembrano quasi una liturgia. Appena arrivato, l’ospite è invitato a sedersi nel luogo più onorevole della gher, la parte nord. Seguono i saluti che consistono nello scambio delle tabacchiere profumate e l’offerta del Sutei tsai (te con latte salato). Con cerimoniosità e cordialità il padrone di casa, cominciando dai più anziani, offre il tabacco da annusare ad ogni ospite mentre la donna offre il Sutei tsai. Gesti semplici, ma carichi di significato, che sembrano voler dire: “Ti riconosco, tu sei importante per me, benvenuto a casa mia, qui c’è un posto per te”.
Poi, dopo il primo giro di presentazioni, si offre del “cibo bianco”, che consiste generalmente in yogurt (se è estate fresco, se inverno secco), burro, panna, e Airag (una bibita fatta con il latte fermentato di cavalla), che sono le delizie della campagna. Lo yogurt appena fatto è veramente delizioso, mentre dell’Airag dicono che uno tra i suoi tanti effetti benefici, sia quello di proteggere dai raffreddori nell’inverno. Un dettaglio importante è che le visite non hanno un tempo fisso di durata e questa può protrarsi qualche ora o qualche giorno, ed è l’ospite a decidere quando andare via. Noi in diverse occasioni siamo stati invitati a passare la notte con la famiglia, ma, sapendo che i padroni di casa avrebbero poi dormito per terra, abbiamo quasi sempre declinato l’invito.
Secondo le usanze tradizionali, agli ospiti che arrivano si deve offrire un pranzo di festa, che di solito consiste in un bel piatto di montone cucinato al fuoco, ma può essere anche una marmotta se è stagione di caccia, o carne di cammello se si è presso una famiglia che vive nel deserto. Noi li abbiamo provati tutti: sono davvero buonissimi! Il pasto si comincia a preparare dopo che arrivano gli ospiti, cosicché se si tratta del montone si può partecipare anche alla scelta dell’animale e a tutta la sua preparazione. Pure questa scena rimanda ai racconti dei patriarchi (cfr Genesi 18,7). Infatti in tempi antichi, come tante volte accade ancora oggi in Mongolia, i visitatori arrivavano alla gher dopo aver passato diverse ore, se non giorni, in viaggio e perciò è diventato quasi un obbligo per il padrone di casa il far di tutto per ristabilire le forze del passante affamato e stanco. Ospitalità allora include offrire nutrimento e riposo, accogliere l’altro finché sia in condizione di continuare il cammino. Chi viaggia nella vita ha bisogno di tanto in tanto di essere accolto, protetto, curato, nutrito. Ma egli non solo riceve, chi viaggia porta con sé le ricchezze di quanto ha visto e imparato, le notizie e messaggi del mondo lontano per condividerli con quei viaggiatori che momentaneamente sono in sosta, ma con i quali c’è un vincolo di fraternità e solidarietà forte come la vita. Inevitabilmente perciò, quando un ospite arriva è festa e c’è gioia nel cuore di tutti, la gioia dell’incontro tra coloro che vivono la vita come un viaggio.
Si parla tanto nelle visite… Tra i pastori è tema comune parlare del tempo e degli animali. Son cresciuti gli agnelli? Sono ingrassate le mucche? Sono aumentate le capre? E poi è la volta dei cavalli: Quanto sono forti? Hanno vinto qualche gara?… In tutti gli incontri si evita sempre di parlare di cose brutte o tristi, o se proprio si deve farlo, se ne parla poco. C’è la credenza che parlando del male lo si attira su di sé. Forse oltre ad una credenza c’è pure un po’ di sapienza: l’aver capito che parlare tanto dei problemi non necessariamente aiuta a risolverli. Serve di più, dicono, il parlare positivo e talvolta stupisce come nelle difficoltà la gente si mostri impassibile, come se niente di male fosse capitato. Se si chiede loro il perché di tale atteggiamento, rispondono che comunque “adesso”, “in questo momento” niente di male è ancora capitato e quando capiterà anche qualcosa, prima o poi finirà, pertanto, non c’è il male. Evitare di parlare dei problemi è in certo senso anche un modo di benedire, un dire del bene lasciando da parte quello che non aiuta, quello che non ci giova, quello che lascerà solo il cuore appesantito. Dunque ospitalità è anche aiutare a mantenere il cuore sollevato, ristorare per continuare a guardare avanti con speranza.
sr Sandra Garay, mc