
Proponiamo in queste pagine l’intervista rilasciataci da Padre Giuseppe Frizzi, Missionario della Consolata, biblista, che ha tenacemente lavorato e donato la sua vita per più di 40 anni tra il popolo Macua in Mozambico.
Padre Frizzi, anzitutto grazie per aver accettato di condividere con i nostri lettori alcune delle tue esperienze nella missione del Mozambico. Sappiamo della lunga lotta di questo Paese per l’indipendenza dal potere coloniale, ottenuta nel 1975. Ma l’esultanza del popolo per questa vittoria durò a lungo o che cosa avvenne subito dopo?
Il Mozambico raggiunge l’indipendenza dal Portogallo solo il 15 giugno 1975, dopo una presenza coloniale di 500 anni e dopo vari anni di lotta armata. Ricordo bene quella data, erano i primi mesi nei quali mi trovavo in Mozambico e cercavo di ambientarmi. La gioia del popolo mozambicano, se all’inizio era esplosiva e incontenibile, pian piano si è andata spegnendo a causa principalmente delle imposizioni da parte di un regime marxista leninista, alieno dalla tradizione e dalle aspettative dei Mozambicani. Di modo che si può affermare che la lotta per l’indipendenza, invece di concludersi con la pace e l’unità del Paese, gli ha arrecato divisione: divisione che si è subito trasformata in guerra civile, protrattasi per vari anni fino agli accordi di pace, conclusi a Roma il 4 ottobre 1992, con la mediazione della Comunità di S. Egidio e della Conferenza Episcopale Mozambicana.

Quali furono i più grossi disagi che voi Missionari avete dovuto affrontare lungo tutto quel periodo?
Le nazionalizzazioni delle scuole, degli ospedali e di altri settori promozionali da una parte e dall’altra, le restrizioni se non le persecuzioni del regime marxista provocarono immediatamente un grande esodo del personale missionario attivo in Mozambico, mentre per tutti coloro che vollero rimanere, fu un periodo difficile e di grandi umiliazioni nei vari comizi che i politici organizzavano contro la Chiesa. Per visitare le comunità cristiane bisognava armarsi di molta pazienza per ottenerne le “guias de marchas” (“permesso speciale” per poter andare in altre località). Insomma se da una parte corrispondeva a verità che la Chiesa ufficiale nel tempo coloniale aveva collaborato troppo con il colonialismo, dall’altra si dimenticava facilmente che il personale missionario aveva sempre non solo favorito ma persino preparato il processo dell’indipendenza. Lo sta a confermare palesemente il dato di fatto che la nuova leadership mozambicana proveniva in gran parte dalle scuole missionarie.
Quale fu il cammino che la Chiesa Cattolica Mozambicana assunse di fronte alla difficile situazione e in particolare quali scelte significative intrapresero i Missionari e le Missionarie della Consolata?
Se molte congregazioni missionarie optarono per l’esodo, il trio consolatino però, e cioè IMC-MC-LMC (Padri, Suore, Laici della Consolata), rimase in Mozambico, nelle posizioni che occupavano, sopportando le restrizioni del regime marxista. Anzi approfittò del tempo delle restrizioni e delle reclusioni urbane imposte per introdurre una nuova modalità di presenza missionaria che sintetizzerei così: non più evangelizzatori diretti di avanguardia, ma indiretti di retroguardia, fornendo alle comunità i testi/sussidi liturgici e catechetici necessari per continuare la loro sussistenza che ora diventava soprattutto autosussistenza. Nasceva così nella Chiesa locale mozambicana il miracolo pastorale delle piccole comunità ministeriali che gestirono la vitalità della fede cristiana con grande senso di responsabilità, con coraggio e anche alle volte con la prigionia spinta fino al martirio. È assai emblematico che al termine del regime marxista e della guerra civile, la Chiesa locale mozambicana sia uscita a testa alta, presentandosi alla Chiesa Universale con un volto qualitativo nuovo, con una ministerialità laicale paradigmatica.
Oserei dire che tu sei un pioniere dell’“evangelizzazione inculturata”: puoi spiegarci in che cosa consiste, come è nata e come si svolge oggi nelle diverse missioni del Mozambico e in particolare nella tua missione di Macua?

In primo luogo, sento il dovere e l’onestà di dire che c’è sempre stata in Mozambico una certa evangelizzazione “interculturata”. A me ha fatto impressione positiva, all’inizio della mia vita in missione, la costatazione che i missionari e le missionarie della Consolata, arrivando nel sud del Niassa, tra i Macua scirima, hanno denominato immediatamente la S. Messa come “Makeya” (raduno rituale di offerta) e Gesù “Namakeya”, sommo sacerdote. In altre parole, nonostante fossero figli/figlie e padri/madri del loro tempo, hanno fatto un salto di interculturalità tale che oggi forse non avremmo più il coraggio di fare: con quelle due parole hanno assunto in pieno le coordinate culturali e teologiche del popolo Macua scirima.
La mia esperienza in questo settore è partita da questa costatazione di coraggio, frutto di studio della lingua. Sappiamo che la lingua è la casa della cultura, della religiosità e della teologia di un popolo. Di formazione esegeta, subito ho avvertito l’importanza dei testi, ho cominciato a registrare mettendo per iscritto tutto quanto poteva arricchire il dizionario già esistente, ampliandolo con i proverbi, i racconti, i riti commemorativi e terapeutici. Ciò ha permesso di fare il successivo passo applicativo, costituito dalla traduzioni di testi catechetici (Catechismo), liturgici (Messalino Domenicale e il libro di Preghiere e Canti) e biblici (tutta la Bibbia commentata con i proverbi scirima e illustrata da artisti locali). Il punto finale è sfociato nelle pubblicazioni di un voluminoso dizionario bilingue Scirima-Portoghese e di una antologia bilingue che riassume i settori principali della biosofia e biosfera macua-scirima.

Che cosa ha favorito la tua esperienza di inculturazione del Vangelo?
La mia esperienza è dovuta a diversi fattori provvidenziali concomitanti come, ad esempio, la “guerra civile” intesa come ritorno e rivendicazione delle tradizioni; la stabilità e continuità di cui ho sempre goduto: ho lavorato per più di 40 anni nella stessa etnia e ritengo che una certa stabilità sia indispensabile per poter scavare e sondare nel profondo dove un popolo conserva i suoi tesori unici e preziosi. Sono certo che la vera evangelizzazione interculturale è quella che attinge alle radici profonde e segrete di una cultura, alla sua linfa ascendente e discendente.
Infine ai teoremi dell’evangelista S. Luca che, come teorico e testimone della missione, ha posto il mietere nell’evangelizzazione come premessa e primizia fondamentale e cioè prima mietere ciò che Dio, padrone della messe e della missione, ha previamente fatto fruttificare nel cammino storico del popolo che si evangelizza, e poi seminare il Kerigma. Prima ricevere e poi dare, in un perenne scambio di doni reciproci, insomma andare in missione con lo zaino vuoto (con solo il Kerigma, dice Gesù!) e riempirlo pian piano lì dove ti trovi a evangelizzare, per infine ritornare con lo zaino pieno, arricchendo e ampliando così l’orizzonte della Chiesa Universale.

Il miracolo dell’Acqua che portò la nostra amata suor Irene Stefani mc alla gioia della Beatificazione lo dobbiamo alla tua iniziativa di chiedere la sua intercessione in un momento di grave difficoltà. Perché hai scelto lei e non qualcun altro? Qual è stato l’impatto del miracolo sulla popolazione di Nipepe da allora fino ad oggi?
In certi momenti drammatici il cuore ti suggerisce spontaneamente quello che devi fare. Stavo leggendo in quel periodo la biografia di suor Irene Stefani: Gli scarponi della Gloria di suor Gian Paola Mina, mc; mi influenzava positivamente il suo stile missionario, soprattutto mi ha ispirato fortemente il fatto che padroneggiava bene la lingua del popolo, persino era giunta a tradurre il Vangelo domenicale in kikuyu perché i cristiani alla domenica, oltre ad udire il vangelo in latino, lo potessero assaporare anche nella propria lingua. Questa iniziativa, straordinaria per quei tempi, mi è suonata come un imperativo categorico che ha segnato definitivamente la mia avventura missionaria. Infine, al tempo dell’attacco di Nipepe, stavo guidando un catechistato con 52 famiglie, sapevo bene l’operato di suor Irene durante la Prima Guerra Mondiale e anche la sua collaborazione con i catechisti: nelle sue piste missionarie andava sempre accompagnata da loro. Posso dire che, istintivamente, ho avuto l’ispirazione di invocare la sua protezione. Di fatto, insieme ai tre catechisti l’abbiamo invocata, per di più seguendo il rito tradizionale della “Makeya” che consiste nel versare in terra farina di meliga, invocando Dio e gli antenati che in quel momento erano rappresentati per me e per i tre catechisti da suor Irene. Accettando la nostra supplica formulata in conformità con la religiosità tradizionale, facendoci sognare sogni profetici consolatori, difendendoci e dissetandoci per tre e più giorni, suor Irene ha guadagnato a Nipepe un secondo titolo: se in Kenya è Nyaatha, la misericordiosa, a Nipepe è Pwiyamwene, la matriarca, la genearca. Giustamente il vescovo di Lichinga, Dom Atanasio Amisse Canira, nel giorno del ringraziamento, ha voluto elevare la chiesa parrocchiale di Nipepe a santuario per la Beata Irene Stefani. Così ogni anno tutta la diocesi va in pellegrinaggio a Nipepe e invoca suor Irene come Pwiyamwene, che ascolta le preghiere in tutti gli stili e lingue formulate. Con i vari interventi miracolosi operati in Nipepe, la Beata ha dato testimonianza che il dialogo interculturale è accetto a Dio e che il trio consolatino, IMC-MC-LMC deve sussistere, rielaborando paradigmi e modalità missionarie in piena sintonia con l’orizzonte attuale che non è più coloniale come ai tempi di suor Irene, ma è universale, mondiale, globale.
suor GLORIA ELENA LÓPEZ MC