
Venticinque anni fa, nel 1992, arrivavano in Mongolia i primi tre missionari cattolici per condividere la Buona Notizia di Gesù, dando così inizio alla Chiesa Cattolica più giovane del mondo. Uno dei tre sacerdoti è l’attuale vescovo della Mongolia, S. E. Wenceslao Padilla, (ma chiamato da tutti semplicemente Vescovo Wens), dalle Filippine. Riportiamo una breve intervista in cui il Vescovo ci racconta gli inizi della Chiesa in Mongolia, le sfide e i suoi sogni per il prossimo futuro.
A quale realtà avete dovuto far fronte al vostro arrivo in Mongolia?
Già il nostro viaggio ebbe qualche avventura. Arrivati a Pechino, avemmo la sorpresa che i voli per la Mongolia a quel tempo erano solo una volta alla settimana, allora si dovettero risolvere diverse difficoltà per poter restare per alcuni giorni a Pechino finché ci fosse l’aereo. Finalmente, dopo tante peripezie, riuscimmo a comprare i biglietti e raggiungere la Mongolia.
Arrivati nella capitale, la prima impressione fu quella di essere in un piccolo paesino di campagna, nonostante Ulaanbaatar avesse già un buon numero di abitanti. I palazzi, costruiti dai Sovietici, erano spogli, circolavano pochissime macchine per le strade e la piazza principale, che oggi è la più importante di tutta la Mongolia, era circondata da alcuni arbusti ed era il luogo dove la gente portava gli animali a pascolare. Le mucche, le capre, le pecore e i cavalli erano tutti lì a pascere tranquillamente. Faceva impressione perché sapevamo di essere nella capitale del Paese ma ci sentivamo come in mezzo ad un campo. Ci alloggiammo allora per alcuni giorni in un hotel finché il nostro appartamento fu pronto. Le nostre prime Messe le celebrammo in una stanza e i primi partecipanti furono alcuni stranieri che già vivevano qui. Erano negozianti o membri di alcune ambasciate o di organizzazioni che venivano ad aiutare in Mongolia in diversi campi. Così iniziammo ad avere i nostri primi contatti, sia con le autorità del Paese sia con altre organizzazioni internazionali. Quando finimmo la nostra sistemazione tutti e tre iniziammo lo studio della lingua.
Qual è la cosa più sorprendente che si ricorda dell’inizio della Chiesa in Mongolia?
Gli inizi furono molto semplici, in questo senso non c’è stato niente di sorprendente, iniziammo tutto da zero. Quello che mi stupiva era che i Mongoli incominciavano ad avvicinarsi alla Chiesa senza che noi avessimo intrapreso ancora nessuna attività di evangelizzazione. Fu così che organizzammo un programma che chiamammo “Vieni e vedi”, dove loro potevano iniziare a conoscerci partecipando ad alcune nostre attività. Erano portati dagli stranieri che erano cattolici mentre venivano alla Messa o in visita. Non si iniziò subito nessun lavoro pastorale, dovevamo essere molto attenti perché la Mongolia si era appena liberata dal comunismo e noi eravamo molto consapevoli di questo. Quello che facevamo era guardarci intorno e cercare di identificare delle possibilità per poter iniziare poi delle attività in relazione con la Chiesa. Fondamentalmente cercavamo di instaurare dei rapporti con tutti.
L’evangelizzazione vera e propria quando cominciò?
Non abbiamo dovuto aspettare molto. Quando i Mongoli che ci frequentavano cominciarono ad essere un po’ numerosi iniziammo a spiegare chi eravamo noi, cosa era la Chiesa e a rispondere alle diverse domande che ci facevano. Dovevamo adattarci alle dimensioni dell’assemblea affittando dei saloni sempre più grandi per poter ricevere più gente; cambiammo posto per sette volte finché venne costruito questo edificio dove oggi ha sede la Prefettura Apostolica. Gli inizi furono difficili, dovevamo discernere tutto da soli senza avere la controparte mongola per un confronto.
Quali erano le vostre maggiori paure?
Certamente, quello che ci spaventava di più era la lingua. Inoltre non conoscevamo la cultura, le tradizioni, né il posto. Nelle Filippine quando si parlava della Mongolia si diceva che erano gente feroce e dalla cartina si vedeva che era un Paese grande tra Cina e Russia. Avevamo paura del clima che nell’inverno è molto rigido, soprattutto perché venivamo da Paesi di clima tropicale. A me personalmente aiutò l’esperienza di freddo che avevo già avuto in Taiwan, un freddo che si sentiva tanto perché umido, e quindi sapere cosa fare nell’inverno.
Quali furono le vostre prime attività?
In quegli anni, dopo la caduta del comunismo, c’era tanta povertà e c’erano molti bambini che vivevano per la strada. Allora cominciammo a visitare la gente che viveva nei tombini del riscaldamento della città e portavamo loro da mangiare o qualcosa di caldo da bere. In seguito, con l’aiuto della Croce Rossa e il Ministero degli Affari Esteri, venimmo a conoscere le diverse situazioni di bisogno per poi intraprendere un’opera nostra, anche se allora non si poteva parlare di iniziare attività come “Chiesa Cattolica”. E comunque il nostro grande sogno era quello di portare la Buona Notizia e costruire la Chiesa.
Dopo 25 anni, che cammino ha fatto la Chiesa?
Poco per volta cominciarono ad arrivare altri gruppi di missionari e ciò ci diede tanta gioia. Nel 1995 arrivarono le Missionarie dell’Immacolato Cuore di Maria (ICM), nel 1996 le suore di San Paolo de Chartres (SPC), nel 1997 le Missionarie della Carità (MC) e un sacerdote Fidei Donum dalla Corea del Sud. Poi arrivarono i Padri Salesiani nel 2001 e i Missionari e le Missionarie della Consolata nel 2003. Con questi nuovi arrivi ci sentivamo più fiduciosi poiché ogni comunità arricchiva la missione con il suo carisma. La missione veramente cominciò a espandersi. Noi della Congregazione dell’Immacolato Cuore di Maria, che siamo più orientati al lavoro sociale, iniziammo un orfanotrofio per i bambini della strada, le suore SPC, orientate all’educazione, iniziarono scuole materne, le MC lavoravano con i più poveri e così via, la Chiesa si arricchì di opere in diversi ambiti sociali e in questo modo, cresceva e si consolidava. Oggi abbiamo 5 parrocchie con oltre mille battezzati. I missionari sono 72, provenienti da 22 nazionalità, inclusi i missionari laici. Siamo presenti non solo nella capitale Ulaanbaatar, ma anche in altre città come Darkhan e Erdenet nel nord, Zuunmod nel Centro e Arvaiheer nel Centro Sud.
Quale può essere la sfida più grande oggi per la Chiesa Cattolica in Mongolia?
Mantenere il lavoro che abbiamo iniziato e avere il diritto di continuare. Mi spiego, la legge in Mongolia impone tante regole che risultano per noi restrittive su tanti aspetti: ad esempio è difficile ottenere i permessi necessari per poter svolgere le nostre attività, e avere del personale qualificato per il lavoro che svolgiamo. Ad esempio, il Rainbow Centre, un progetto che serve bambini disabili, non può contare su personale specializzato; non essendoci permesso di far entrare più personale straniero, abbiamo solo lavoratori mongoli che sono maestri della scuola comune e che non hanno ricevuto la formazione in questo campo, perché in Mongolia non esistono ancora queste competenze. Sento che come Chiesa dobbiamo prepararci a rispondere ai bisogni della gente, specialmente dei più poveri. Per questo, per celebrare i 25 anni della Chiesa in Mongolia faremo un’Assemblea Generale per chiederci ancora una volta: “Quali sono i veri bisogni della gente?”.
Come vorrebbe vedere la Chiesa nei prossimi 25 anni?
Vorrei vederla cresciuta, non tanto nei numeri ma nella qualità, specialmente nella qualità di coloro che si convertono al Cattolicesimo. Oggi osserviamo che non pochi dei nuovi battezzati attratti dal fascino della società consumista e materialista rimangono credenti superficiali, mai riuscendo a conoscere che cosa significa essere cristiani fino in fondo. Anche tra quelli battezzati agli inizi ci sono tanti che si sono allontanati. Perciò il nostro lavoro è aiutare, specialmente coloro che sono già battezzati, ad approfondire la propria fede. E riguardo ai non ancora battezzati dobbiamo aiutarli a interiorizzare la fede nel profondo del loro cuore, perché comprendano realmente che cosa è la nostra religione: cosa significa avere fede in Dio e negli altri, cos’è la misericordia, il perdono, l’amore, e tutto quello che fa parte della nostra fede. Bisogna non solo che sia capito ma deve anche essere sentito e praticato. Non penso ad una Chiesa trionfalistica della quale tutti i Mongoli faranno parte, è sufficiente avere un po’ di lievito che aiuti a fermentare la pasta, che aiuti la società ad avere un’etica morale, che abbia rispetto per la vita umana e onori Dio. Sogno una Chiesa che si diffonda nel più profondo della nostra società.
suor Sandra Garay, MC
questo articolo è stato pubblicato in Andare alle Genti
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