La gioia di annunciare Cristo alla gente
Suor Alejandra è una di quelle persone per cui l’età anagrafica conta veramente poco: ci ritroviamo ad un incontro: lei la decana del gruppo, io la più piccola. Eppure la giovinezza e l’entusiasmo di questa missionaria sono senza età. Ci fermiamo una mezz’oretta per fare quattro chiacchiere…
Come hai sentito la passione per la missione?
E’ una storia veramente bella! E’ una passione che mi ha messo nel cuore la mia mamma. I miei genitori hanno avuto 18 figli, io ero la quarta. Quando avevo 4 anni, un giorno in cui ero seduta vicino a mia mamma, la santa donna mi dice: “Ma lo sai, figlia mia, che ci sono brave ragazze che lasciano papà e mamma e vanno in Africa per battezzare i bambini? Lo sai che i bimbi senza Battesimo non vanno in Cielo…” (questa era la teologia di quel tempo…) Io non dissi nulla, ma queste parole scesero nel mio cuore, e rimasero l¿. Io ero una contadina, per andare alla scuola dovevo camminare due ore. Ho studiato fino a terza elementare, poi sono rimasta in casa per accudire ai miei fratellini.
Quando ci siamo spostati nel villaggio, un giorno sono arrivati i Missionari della Consolata per fare la “pesca miracolosa” (si faceva così a quei tempi!) Nella mia regione di Caldas, avevano fondato un seminario e andavano nei villaggi in cerca di ragazzi che volessero entrare in seminario. Quando sono arrivati al mio villaggio, chiesero agli alunni della scuola se qualcuno voleva essere missionario, e mio fratello alzò la mano. E così, dopo le lezioni, andarono a casa mia per parlare con i genitori. Mia mamma disse loro: “Non solo questo mio figlio, sceglietene altri, poiché questi miei figli non sono miei, sono di Dio” E mio fratello partì con loro. In quei giorni non ero presente nella casa. Dopo qualche tempo mio fratello mandò una rivista sulle missioni, e lì c’era la foto di due missionarie a cavallo, nel Caquetá. Il mio cuore saltò e pensai: “Sarò una di queste suore!” Ma non sapevo come dovevo fare per essere missionaria… però c’era un indirizzo: sono andata al negozio, ho comprato un foglio, una busta e una matita e… ho scritto. Dopo 15 giorni… che sorpresa! mi arrivò la risposta: suor Flavia, la superiora regionale, doveva andare al seminario di San Felix in Caldas, dove studiava mio fratello, e mi invitava a incontrarla. Ero sicura: già sarei partita per l’Africa insieme alla suora per battezzare i bambini. Chiesi a mia mamma di benedirmi, con la certezza che non sarei più tornata a casa. Io, così timida, con gli occhi bassi… quando suor Flavia mi chiese: “Davvero vuoi andare in Africa?”, mi alzai in piedi e con sicurezza esclamai: “Si, Madre! Voglio andare in Africa per battezzare i bambini!” Il giorno seguente ritrovai di nuovo la madre che mi disse di vivere un tempo con le suore, lì in San Felix.
E che cosa è successo poi con l’Africa?
Ah, questa è un’altra frustrazione, il non essere andata in Africa… In quel tempo avevamo la missione in Caquetá, era veramente terra di missione, lontanissimo da Bogotá. Lì sono stata molti anni, fino a quando sono andata in Venezuela. Quando è venuta Madre Fernanda in Colombia, mi ha invitato ad andare in Etiopia, ma le ho risposto: “Ah, Madre! Perché ha aspettato tanto a dirlo! Ormai non mi sento più di imparare una lingua tanto difficile come l’amarico!” E allora mi mandarono a Tencua, per fondare la missione con gli Yecuana. E così mi è rimasta la frustrazione di non andare in Africa (ride)
Cosa ci puoi raccontare di questa “avventura” della fondazione di Tencua?
Ero già stata in Venezuela, nella Guajira, avevo fondato la nostra presenza lì con suor Teresa nel 1982. Lei è rimasta 12 anni, io ho dovuto ritornare in Colombia dopo un anno per un problema che c’era lì. Però la Guajira è una realtà totalmente diversa da Tencua: sia nell’aspetto geografico come nel culturale. La Guajira è un deserto, Tencua è foresta amazzonica. La etnia Guayù è la maggioritaria in Venezuela, la Yecuana è la minoritaria, una delle più piccole. Il popolo guajiro centra la sua vita nella relazione con i defunti, in Tencua quando muore una persona dicono: “E’ finito” e quasi non parlano più della persona. Sono solo alcuni dati per descrivere la differenza di due realtà, una nel’estremo Nord e l’altra nell’estremo Sud del Paese.
Quando mi dissero di andare a Tencua, ero molto felice: era un paese con la stessa lingua – perché la lingua è l’unica barriera che mi ostacola per andare in Asia (ride) – però mi adatto facilmente a qualsiasi situazione ambientale. E così, le due cha avevamo fondato la Guajira, abbiamo anche fondato Tencua! A noi si sono aggiunte suor Imelda e suor Paula.
Qual è la più grande gioia che ti ha dato la missione?
Bene, poter comunicare Cristo alla gente, in ogni modo: implicito ed esplicito, è una gioia molto grande che posso sperimentare fino ad oggi: far conoscere Gesù. E un’altra grande gioia è aver costruito amicizia con la gente: loro mi vogliono bene e sanno che io voglio bene a loro. Il popolo Yecuana è molto identificato con la propria cultura, è un popolo che va avanti, anche se molti vivono in città, quando ritornano seguono le loro tradizioni. Ogni tanto mi chiedo perché un indigena quando va in città deve cambiare mentre un Nordamericano, un europeo, può essere lo stesso in ogni luogo…
Oggi ci sono molte possibilità di studiare: un Yecuana ha studiato medicina e oggi è medico per la sua gente. E ce ne sono altri che si stanno preparando professionalmente.
Quanti sono i Yecuana?
Sono circa 6 mila persone, che vivono nell’Alto Orinoco, Alto Ventuari e Alto Caura. Nella nostra zona – l’Alto Ventuari – sono circa mille, divisi in 20 comunità. La più grande è Caacurì che conta 800 persone, le altre sono di 200, 100, 50 abitanti. Il nostro territorio pastorale corrisponde al fiume Ventuari, dall’affluenza del fiume Manapiare fino alle sorgenti, alla frontiera con il Brasile. La sfida più grande da affrontare è che ci sono tre cascate che impediscono di risalire il fiume: bisogna lasciare la barca prima della cascata, caricare il motore e i vari bagagli, quindi camminare alcune ore nella foresta fino a ritrovare una barca al di sopra, per di più il fiume è pericoloso in questa zona. Oggi è molto difficile la visita alle comunità perché non si trova combustibile e i costi sono molto alti. Però non c’è un’alternativa per arrivare là.
E quante comunità ci sono in questa zona?
Quasi tutte: vicino a Tencua ce ne sono solo 6, le altre sono al di sopra delle cascate. Quando possiamo andare, stiamo fuori 15 giorni, però si può fare solo una o due volte all’anno, e per questo il cammino di evangelizzazione cammina lentamente. Facciamo laboratori per costruire amache o altri oggetti di artigianato, e naturalmente la catechesi.