I’m albino

La condizione degli albini in Tanzania è stata, negli ultimi anni, estremamente allarmante. Era il 2008 quando è iniziata la vera e propria “mattanza” e io ero in Tanzania. Dal nord, dalle regioni più povere al confine con il lago Vittoria, si diffuse la credenza messa in scena da guaritori locali, che l’avere un amuleto di pelle o di organi di albino potesse portare fortuna e benessere per tutta la vita. Purtroppo questa credenza si diffuse in tutto il Paese tanto da provocare aggressioni agli albini e ai villaggi dove questi vivevano. James mi racconta: “Ero in giro per le strade di Dar es Salaam, mi hanno bloccato in tre e hanno provato a tagliarmi un dito del piede, ho ancora la cicatrice… meno male è arrivata una donna che si è messa a gridare”. Inizialmente si pensava che i guaritori avessero convinto di tale credenza la popolazione più ingenua, ma in realtà sembra che non fosse solo una convinzione di minatori e pescatori: una giornalista tanzaniana, corrispondente della BBC, per un suo articolo sul presunto coinvolgimento di importanti uomini della politica e della società civile sulla questione, e sull’enorme costo degli amuleti, fu minacciata pesantemente.

Anticamente gli albini venivano discriminati in quanto bianchi, ma chi vive in Tanzania da più di qualche decennio, ha visto come gli albini sono integrati nella società. Si sposano non necessariamente tra di loro, anzi raramente. Hanno figli bellissimi. Se hanno la possibilità, studiano e lavorano ricoprendo anche posti importanti. Ma la loro pelle si scioglie come neve al sole. Devono coprirsi, cospargersi di creme specifiche che il più delle volte non hanno e il problema è che sono ancor più poveri degli altri. L’albinismo provoca la parziale o mancata pigmentazione di melanina nella pelle, nei capelli e negli occhi, sviluppa tumori alla pelle che li deforma e una fortissima miopia che li porta, negli anni, alla cecità. L’unico ospedale per la cura del cancro in Tanzania è l’“Ocean Road” a Dar es Salaam, qui troviamo una sede dell’Associazione Nazionale degli albini che si occupa di sostegno e sensibilizzazione. Il Tanzania è lo Stato con la più alta percentuale di albini rispetto agli altri Stati africani: dei quasi cinquanta milioni di abitanti, gli albini supererebbero i trecentomila. Negli ultimi anni la questione degli albini ammazzati e scuoiati è diventata un fenomeno di giornalismo di massa, creando tour di “reporter e giornalisti” che arrivano in Tanzania senza alcuna conoscenza della cultura e del popolo, con il solo fine di cercare, scovare e documentare la violenza sugli albini. Sono nate migliaia di associazioni in ogni parte del mondo che raccolgono fondi per aiutare gli albini. Ma noi giornalisti abbiamo il dovere di raccontare anche quanti passi sono stati fatti dal Governo, dall’Associazione tanzaniana degli albini e dalla società civile dal 2008, per superare e fermare questo dramma: dalla sensibilizzazione nelle scuole e nei villaggi per smentire queste credenze all’aiuto medico-sanitario e alla solidarietà gratuita e straordinaria di cui solo i Tanzaniani sono capaci tra di loro e con il prossimo. Il mio reportage “I’m Albino” è nato per raccontare anche questo: come nonostante tutto gli albini rispondessero con un sorriso sperando in un futuro migliore perché in quanto Tanzaniani conoscevano la loro gente. Purtroppo ci sono ancora casi di aggressione ad albini, come ci sono casi di violenza sulle donne in Europa ogni giorno. Gli albini, grazie al grande aiuto delle migliaia di associazioni “salva-albini”, nascono e crescono amati dalle famiglie e vivono sereni, compatibilmente con la povertà della propria realtà.

Ho conosciuto Mariamu, una bellissima bambina albina di dodici anni, attraverso Erick, il mio amico responsabile degli albini dell’Udzungwa (nel sud del Tanzania). Mariamu, abbandonata alla nascita dalla madre, vive con la nonna che ha un grave tumore alla tiroide, sulle montagne di Ilamba. Sono andata nel suo villaggio con suor Ida Luisa Costamagna, Missionaria della Consolata ed Erik che voleva che conoscessimo la sua storia per aiutarla. Una timidezza e una dolcezza disarmanti. Due occhi curiosi e spaventati mi fissavano dal buco di una kanga (telo di cotone) con la quale si copriva il viso. È stato amore a prima vista. Ci sono våoluti mesi prima di arrivare a un sorriso liberatorio, spontaneo, e farle superare la rigida educazione tanzaniana quando si è in presenza di un adulto. Non aveva paura di noi, ma della nostra diversità ed era intimidita, come qualsiasi altro bambino. Mariamu è una bambina serena che come i suoi coetanei va a scuola, gioca e divide tutto con i suoi cugini e amici. Non mi chiede e non mi ha mai chiesto nulla, né lei, né sua nonna. Non mi racconta della sua quotidianità perché per lei è una cosa normale, come considera normale i bulli che ogni tanto la prendono in giro, perché lo fanno con tutte le bambine, mi dice.

L’anno scorso ero a Ilamba, da due settimane. La stagione delle piogge era arrivata dritta sparata senza sconti e senza pause. Mi svegliavo sotto secchiate d’acqua e andavo a letto sotto le stesse secchiate. La strada era una poltiglia di fango e si scivolava come su una lastra di sapone. A stento ero riuscita ad arrivare alla scuola materna delle suore per salutare i bambini che ormai mi conoscono da anni ma, nonostante volessi andare al villaggio vicino per salutare Mariamu, era impossibile. Un pomeriggio suor Ida mi telefona dicendomi di andare a casa loro. Arrivo armata di ombrello e k-way contro la pioggia e mi trovo davanti al sorriso di Mariamu, in una pozzanghera d’acqua, tanto era inzuppata. Aveva saputo che ero tornata ed era venuta a salutarmi. Inevitabilmente dopo un mega abbraccio l’ho inondata di domande: se avesse bisogno di qualcosa, se stava bene… e lei mi ha risposto che voleva solo salutarmi e sapere come stavo!

Romina Remigio

questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Andare alle Genti

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