Mi ritrovo seduta nel bel giardino della casa di spiritualità di Bogotá, in compagnia di suor Riccardina Silvestri, una missionaria della Consolata simpatica e vivace, che vibra per la missione e per l’amore alla sua gente. Vi condividiamo le quattro chiacchiere che abbiamo fatto…
Iniziamo con una provocazione: si può essere missionarie negli Stati Uniti?
Me l’han fatta tante, tante volte questa domanda! Io non mi sono mai chiesta se l’essere missionaria dipende da un posto. Quando sono andata per gli Stati Uniti la prima volta era per studiare e poi per andare in missione. Il fatto di essere qui, o il fatto di essere lì non mi ha toccato. Mi ha toccato in questo senso solamente: sognavo di andare a Roraima, dove mio fratello missionario aveva vissuto ed era morto, e siccome la mia vocazione è nata dalla sua scomparsa, questo era il mio sogno. Questa è stata l’unica delusione… Ma mai che abbia dubitato di essere missionaria negli Stati Uniti. Più tardi, quando abbiamo riveduto il concetto di “missione come relazione”, missione che nasce dalla Trinità, nel Figlio missionario del Padre, ed io che sono missionaria di Gesù, allora mi ha ancora di più convinta che non è il posto che dà quel senso di essere missionaria, ma quello che hai dentro. Siamo in un posto dove noi possiamo veramente essere consolazione, e adesso le scelte che abbiamo fatto negli Stati Uniti, sono tutti nelle “rive” dove siamo chiamate ad attraccare la nostra barca: la riva degli abbandonati, del popolo oppresso che ha perso la propria identità. Non essendo tra i non cristiani, come indica il nostro carisma, penso che questo è il secondo posto dove proprio si realizza la chiamata missionaria.
Che risposte vi siete date, voi MC negli Stati Uniti, rispetto al modo in cui si può dare consolazione lì dove siete?
Per me la consolazione è come dice la famosa frase di Sant’Ireneo: “La gloria di Dio è la persona vivente” e il fatto che il nostro motto sia: “Annunceremo la gloria alle nazioni” , vedo lì una connessione molto significativa, perché la persona vivente è quella persona che vive secondo il piano di Dio: una vita abbondante in tutti i sensi: dal punto di vista fisico, dal punto di vista spirituale, intellettuale… a tutti i livelli. La vera consolazione è contribuire lì dove sono (adesso sono nella Casa Regionale, prima ero in una Parrocchia, poi ero in una riserva indiana), con la mia vicinanza e con i servizi che loro accettano – perché non si può andare là e dire: “Adesso vi dico io cosa bisogna fare” – l’importante è essere presenza, essere con loro, e far capire loro in qualche modo la loro dignità. Questo è il modo essenziale per essere consolazione, per essere in qualche modo la persona che facilita questo diventare “fully alive”, completamente viva, non che stiracchia, che non riesce a sbarcare il lunario per se stesso e per i figli. Far percepire alla persona quanto sia importante. Quando abbiamo fatto questa scelta di una presenza tra i popoli nativi, era in questo contesto della persona con abbondanza di vita: per questo Gesù è venuto, perché abbiamo la vita in abbondanza. E allora lo accosto al nostro motto: la gloria di Dio è la persona completamente viva.
Quando avete iniziato in Sacaton, Arizona, tra il popolo Pima nella riserva indiana, quale è stata la tua prima impressione sia della realtà, sia del significato della vostra presenza lì?
Quando sono andata a Sacaton, ero veramente molto, molto felice. Quando siamo arrivate là in due, non c’era niente di pronto. Siamo andate in macchina, attraversando tutti gli Stati Uniti. La prima domenica quando eravamo già tutte e quattro, il responsabile della pastorale ci ha portate nelle quattro cappelle dove noi dovevamo servire. CI hanno presentato e ciascuna si è presentata. Erano semplici persone, alle volte erano un piccolo gruppo. Quello che a me ha toccato è come ci hanno accolto, con molta semplicità. La gente è molto riservata: i bambini chiaramente sono più espansivi, ma nel modo in cui ci hanno ricevute, io mi sono profondamente commossa: mi è passata davanti tutta la loro storia in mente. Non riuscivo nemmeno a parlare, mi scendevano le lacrime a quello che questa gente aveva sofferto. Per cui, la prima cosa che sentivo era: se potessi cancellare tutto il male che avete ricevuto da noi bianchi. Quello che abbiamo distrutto della loro identità… Man mano che venivamo a conoscenza, non sapevamo bene cosa fare, ma il Signore ci è venuto incontro: la mortalità è alta nella riserva, a causa della diabete, dei suicidi, degli incidenti stradali e dei crimini, ci sono funerali quasi tutti i giorni. Per il popolo Pima la morte e il morto è tutto sacro: onorano le persone che sono morte con quattro sere di preghiera, e loro sono molto devoti del Rosario. Abbiamo cominciato ad andare a queste veglie, ed è stato il modo in cui siamo venute a conoscenza della gente, e anche del loro modo di concepire la morte, l’aldilà, dei loro riti che fanno, quindi abbiamo iniziato a capire qualcosa della gente. E poi praticamente vivere con loro: non abbiamo fatto nulla di più, non abbiamo mai dato aiuti. Abbiamo partecipare alle loro feste, aiutando in qualsiasi modo: aiutando a preparare i cibi, sbucciare le patate. E quando io sono venuta via da là, ho capito che questo era il modo migliore di stare con la gente: quando ho avvisato al responsabile della cappella che dovevo andare via, ha fatto un’espressione quell’uomo! E lui ha detto alla gente presente, alla fine della Messa: “Ci hanno rubato una delle nostre sorelle”. Quello mi ha colpito profondamente: non era nemmeno un anno e mezzo che io ero lì, e in qualche modo siamo riuscite a far capire che siamo sorelle: non siamo lì per insegnare, per dare, ma per camminare con loro. Quando mi hanno preparato un piccolo ricevimento per salutarmi, io ringraziando di una così bella sorpresa, mi sono sentita rispondere: “Ma sai, tu sei famiglia”.