
Gli effetti nefasti de El Niño sull’America e in particolare sulla Bolivia

Non so perché lo abbiano chiamato Niño, né lo voglio sapere, ma questo bambino (questo significa tale parola in spagnolo) è un bimbo molto, molto cattivo: ci fa stare a naso in su tutto il giorno, implorando pioggia da un cielo senza nuvole. Ad ogni batuffolo bianco (meglio se scuro) che appare nel blu intenso, si aggrappa la speranza di una pioggia che non arriva. Il suono di tuoni diventa musica alle orecchie, ma niente: partiamo per l’Argentina, a fine dicembre, con l’angoscia di non aver visto iniziare la stagione delle piogge.
Fin dagli Anni Ottanta la Bolivia è stata colpita da una serie di siccità che, poco per volta, hanno obbligato la gente a lasciare l’Altipiano Andino in cerca di lavoro nelle città o migrando verso Argentina, Brasile, Europa. Siamo arrivate a Vilacaya nel 2013: la gente si lamentava già della diminuzione delle piogge, ma nel corso di questi quattro anni abbiamo potuto constatare con i nostri occhi la progressiva desertificazione della zona, con una stagione delle piogge ogni volta più ridotta. Il meglio del peggio è stato l’anno scorso: non raggiunge i due mesi il tempo delle precipitazioni, ad aprile si parla già di scarsità delle risorse idriche, e sappiamo che le piogge, nella migliore delle ipotesi, non arriveranno prima di ottobre. Ma il peggio del peggio è ora: se siamo arrivati a fine 2016 arrangiandoci e soffrendo un poco, che sarà di noi, della nostra gente, nel 2017, se le piogge non riforniscono d’acqua le vene sotterranee?

Molte volte si dice “l’acqua è vita”, ma fin quando non lo si prova sulla propria pelle, non si comprende la profonda realtà che si afferma. E c’è anche il rovescio della medaglia: “La mancanza d’acqua è guerra”. Sì, ve lo assicuro: se manca il prezioso liquido cristallino, tutti si barricano in difesa del poco che possiedono, e questo a grande scala come nel piccolo dei villaggi. E adesso mi spiego: Cile, il miglior nemico della Bolivia, fin da quando quest’ultima ha perso il suo sbocco al mare in una guerra persa con il vicino lungo e stretto. Da sempre – e soprattutto nel governo di Evo Morales – la rivendicazione del mare è un tema da sbattere sul muso al Cile. Ma quest’anno, quando la sete ha iniziato a farsi sentire, scoppia il caso: il Cile ha rubato da anni l’acqua di un fiume in territorio boliviano. Rubato? Sicuramente c’era stato un accordo più o meno formale per l’installazione di tubi e canali che derivavano l’acqua verso i campi cileni. Solo che adesso l’oro blu vale più dell’argento, che 500 anni fa aveva ipnotizzato gli spagnoli. Si parla persino di un dispiegamento di carri armati al confine: la guerra dell’acqua è alle soglie. Nel nostro piccolo, Vilacaya va nella vicina comunità di Mulahara, per chiedere di poter incanalare l’acqua e migliorare un poco la situazione, ma i vicini si rifiutano: hanno paura che in tempi peggiori verrà a mancare loro. E pensare che i loro figli vengono a Vilacaya per la scuola superiore, ma niente: la paura vince sulle buone ragioni.

In novembre è caos totale: le grandi e popolose città iniziano a razionare l’acqua – certo, soprattutto nei quartieri poveri – e la situazione si aggrava in La Paz. La gente inizia a vendere secchi d’acqua come se fosse oro, le motobotti la forniscono a lunghe file di persone assetate. Cile si offre di aiutare Bolivia, ma il presidente Evo dice: “No, grazie: ce la facciamo da soli”. In dicembre iniziano precipitazioni, alle volte violente, con grandine, prostrando i contadini. In altre parti, come il dipartimento di Potosí, nemmeno una goccia.
Tutta colpa di quel bimbo cattivo! Ma di chi è figlio? Ciascuno faccia il DNA del proprio stile di vita, e si riconosca padre/madre di questa creatura…
suor Stefania Raspo, mc