Il profilo di tre donne che, pur nella grande diversità di temperamenti, ruoli ecclesiali e vicende vissute, si sono poste al servizio del dialogo e della comunione
Edith Stein

Ebrea tedesca, filosofa, cattolica, monaca carmelitana col nome di Teresa Benedetta della Croce, uccisa nelle camere a gas di Auschwitz il 9 agosto 1942. Il 1° maggio 1987 viene beatificata da Giovanni Paolo II come martire per la fede; l’11 ottobre 1998 è proclamata santa e, l’anno successivo, compatrona d’Europa insieme a Santa Brigida di Svezia e a Santa Caterina da Siena.
Tra le poche testimonianze che abbiamo sui suoi ultimi giorni di vita, quella di un superstite che la vide al campo di smistamento di Westerbork, dove Suor Benedetta rimase alcuni giorni prima di essere trasferita ad Auschwitz, ne descrive il comportamento calmo e capace di donare consolazione ai suoi compagni di prigionia, e l’atteggiamento di cura amorevole verso quei bimbi che le madri, cadute in uno stato di disperata prostrazione, non riuscivano più ad accudire.
Sono gli ultimi gesti che ci sono stati tramandati di questa donna che ha accolto il disprezzo e l’annientamento di se stessa in totale solidarietà con il popolo ebreo cui apparteneva, e nell’unione più profonda con il Dio rifiutato e crocifisso.
La conclusione della sua esistenza è anche il punto di arrivo di un itinerario segnato dalla tensione verso l’“altro” e la sua verità. Infatti, benché nata in una famiglia ebrea profondamente osservante, Edith si era allontanata nella prima adolescenza dalla pratica religiosa; furono il suo percorso di ricerca, prima intellettuale (fin dai suoi studi fenomenologici con Husserl, sull’empatia come processo esperienziale interiore che mette in relazione con l’alterità) e poi spirituale, e il confronto con amici protestanti a condurla fino alla scoperta della fede e all’incontro, in Cristo, con l’“assolutamente Altro”. Ricevuti il Battesimo e la Prima Comunione il 1 gennaio 1922, a 31 anni, desiderò subito dedicarsi alla vita contemplativa, ma le fu concesso di seguire la sua vocazione solo nel 1933 – anno dell’ascesa di Hitler al potere e della promulgazione delle leggi razziali – quando entrò nel Carmelo di Colonia, dopo anni dedicati agli studi filosofici e teologici, all’attività di conferenziera e all’insegnamento.
Fu lei stessa a dichiarare di essersi sentita profondamente ebrea dopo il suo Battesimo: la sua, quindi, non fu tanto una conversione dall’ebraismo al cattolicesimo, quanto dall’indifferenza religiosa alla fede in Cristo. Nel testamento spirituale che scrisse il 9 giugno 1939, si dichiarò disposta ad accogliere qualsiasi morte Dio intendesse riservarle, per la salvezza del suo popolo, della Germania e per la pace nel mondo.
Divenne così anche una figura-ponte tra le due fedi: “eminente figlia d’Israele e figlia fedele della Chiesa”, come la definì Giovanni Paolo II nell’omelia per la sua canonizzazione.
Madeleine Delbrêl
A diciott’anni scriveva: “Dio è morto, viva la morte!”, proclamando il suo ateismo e l’assurdità dell’esistenza umana. Due anni dopo, nel marzo 1924, vive l’esperienza folgorante dell’incontro con Dio e inizia un cammino di conversione: “Ero stata e sono rimasta abbagliata da Dio. Mi era, come mi resta, impossibile mettere sulla stessa bilancia Dio da un lato e dall’altro tutti i beni del mondo” (Noi delle strade).
Da allora la sua intelligenza e vivacità, il suo talento di scrittrice e poetessa, la sua formazione di infermiera e assistente sociale furono messe completamente al servizio di Dio, nella Chiesa.
Abbandonata l’idea, anche per obblighi familiari, di entrare nel Carmelo, nell’ottobre del 1933, con due compagne di scoutismo, partì per Ivry-sur-Seine, sobborgo industriale di Parigi e roccaforte del comunismo, dove le condizioni massacranti di vita e di lavoro alimentavano l’anticlericalismo e l’ateismo più radicali. La scelta di Madeleine e delle sue compagne – rivoluzionaria per quei tempi – fu vivere i consigli evangelici in una vita laicale, completamente immersa nel mondo, condividendo in tutto la vita della gente comune. Fondarono così la prima di quelle che sarebbero state chiamate le “Équipes della Carità”.
La certezza che la mosse è che essere, con la Chiesa, laddove la volontà di Dio chiama, in qualunque situazione e con qualunque mansione, è autentica missione; e il luogo privilegiato per la missione è proprio quello che appare più lontano da Dio, e dunque più assetato e bisognoso di salvezza. Il mondo diviene così dunque luogo di santificazione in cui immergersi come in Dio stesso e l’ateismo dei fratelli la condizione più favorevole per l’annuncio evangelico. “Quello che ci interessa – scrisse in Città marxista, terra di missione – è che un Dio amato da noi e che ama ciascun uomo per primo, ciascun uomo possa, come noi, incontrarlo”.
Morì improvvisamente, il 13 ottobre 1964, pochi giorni prima del compimento dei 60 anni.
È in corso il suo processo di beatificazione.
Maria Vingiani
In un incontro diocesano di formazione ecumenica, tenuto a Torino il 15 novembre 1997, Maria Vingiani introdusse il suo intervento sul tema “Dialogo con gli Ebrei”, con queste parole chiare e decise: “Direte che il tema del dialogo con gli Ebrei non c’entra con la vocazione cristiana; e invece tutto il mio intervento, se riuscirò ad essere oggettiva, dovrà significare soltanto questo: non c’è vocazione cristiana – testimoniare Cristo e vivere per lui nella storia e nella Chiesa – se non nella chiamata a dialogare con il popolo ebreo, la radice, il luogo d’innesto della vita cristiana”.
La convinzione che il dialogo con l’ebraismo sia il punto di partenza imprescindibile per il cammino ecumenico è, infatti, la peculiarità del SAE (Segretariato Attività Ecumeniche), un’Associazione interconfessionale di Laici di cui la Vingiani è stata la fondatrice e la Presidente fino al 1996.
Lei stessa racconta, in una memoria storica reperibile sul sito del SAE, il nascere della sua vocazione all’ecumenismo: la scoperta dolorosa e sconcertante per lei, giovane studente cattolica a Venezia, della disunione e ostilità tra cristiani; la chiamata, maturata nella preghiera e nello studio del movimento ecumenico europeo, a farsi carico di questa divisione per comprenderla e superarla. Erano gli anni successivi alla Seconda guerra mondiale quando, in clandestinità e a rischio di scomunica – ma sempre in dialogo obbediente con il Patriarca di Venezia, Piazza, che la autorizzò, non senza grande preoccupazione, a frequentare i luoghi di culto protestanti – la Vingiani iniziò ad organizzare incontri (lei unica cattolica) con alcuni Pastori protestanti e qualche laico evangelico: inizialmente su problemi socio-culturali della città – collegati anche al suo impegno di Assessore alle Belle Arti – poi, finito il tempo della clandestinità, su temi biblici. Il lavoro comune di studio e confronto sulla Parola di Dio, vissuto nel dialogo e nel servizio, fu il metodo più idoneo per combattere la tradizionale intolleranza reciproca e la contrapposizione tra membri di confessioni diverse. Ma furono l’incontro, il 16 settembre 1957, con Jules Isaac (lo storico ebreo che, persa quasi tutta la sua famiglia ad Auschwitz, dedicò la propria vita a far riabilitare il popolo ebreo nell’insegnamento cristiano) e la profonda amicizia che ne nacque, a spingerla ad imprimere nel cammino del gruppo l’impegno di riscoperta della comune radice biblica di ebrei e cristiani e la valorizzazione dell’ebraismo, coinvolgendo il presidente della comunità ebraica veneziana. Furono così poste le fondamenta di quello che a Roma (dove la Vingiani si trasferì negli anni del Concilio) sarebbe diventato il SAE, il cui statuto porta la data del 15 dicembre 1966.
Alla tenacia di Maria Vingiani si deve lo storico incontro, avvenuto nonostante resistenze curiali che sembravano insuperabili, tra Papa Giovanni XXIII e Jules Isaac, il 13 giugno 1960, che avviò il percorso di riavvicinamento tra Chiesa cattolica ed ebraismo, poi sancito dalla dichiarazione conciliare Nostra aetate.
Paola Lamalfa
Questo articolo è stato pubblicato in Andare alle Genti
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