Un’estate diversa, alla scoperta di un mondo diverso
Questa mattina ho aperto gli occhi accompagnata dal ticchettio regolare delle gocce di pioggia sul vetro della mia finestra. “Ci mancava solo la pioggia” è la prima frase che sento dire da chi accoglie il mio buongiorno rispondendo con una lamentela. Un tempo avrei pensato anche io la stessa cosa.
Oggi, invece, mi alzo con allegria. La Bolivia mi ha insegnato anche questo: confidare nel nuovo giorno che nasce e gioire quando il cielo ci regala acqua. Ci sono luoghi della terra che soffrono per mancanza di risorse primarie e forse è anche un po’ colpa nostra, di questa porzione di mondo che con leggerezza spreca e spesso toglie vita a chi sta dall’altra parte, e non ha abbastanza voce per farsi ascoltare.
È passato ormai quasi un mese dal mio ultimo giorno nella missione di Vilacaya: anche la mattina che sono partita per tornare in Italia il cielo era tenebroso ed è scesa qualche goccia. E’ stata una sorta di benedizione, una preghiera di fiducia in un ritorno.
Il mio viaggio aveva origine da un desiderio scavato nel profondo, un tarlo che tormenta, un battito di tamburo che scandisce il tempo. La necessità di esplorare una parte di mondo che non mi apparteneva, che mi avrebbe messa alla prova e fatto scoprire altri valori, non mi hanno mai abbandonata in questi anni. Non so definire esattamente cosa mi abbia fatto dire “Bolivia”: ci sono luoghi che chiamano, e percepisci a pelle una certa compatibilità. Un po’ come con le persone. Poi mi affascinavano i colori, i suoni, la cultura Quechua e la storia millenaria. Così il 28 luglio ho lasciato il mio orizzonte incorniciato dal Monviso e mi sono ritrovata a Vilacaya: 4000 metri di altitudine e terra arida, un cielo azzurro intenso che ti si appiccica agli occhi, e distanze troppo vaste da attraversare per le sole gambe di un uomo.
Il corso missionario che ho frequentato in preparazione al viaggio porta il titolo “giovani in missione: perché no?” Oggi, alla luce dei due mesi condivisi a Vilacaya con tre sorelle straordinarie, posso dire di aver trovato i miei “perché sì”.
Sì perché sentirsi stranieri insegna umiltà, accettazione dei propri limiti, apertura a rimettere in discussione quelle che si consideravano “certezze”.
Sì perché relativizza le abitudini e rimescola le priorità.
Sì perché incontrare e conoscere l’Altro in situazioni di pace aiuta a creare ponti e abbatte i muri e le paure del “diverso”, arricchisce di umanità.
Sì perché vivere in povertà significa realizzare prima di avere troppo e poi di avere abbastanza, imparare a condividere il poco che si ha con chi non ha niente, tornare all’essenziale.
Sì perché riappropriarsi di spazio e tempo è un’azione che mette ordine alla propria vita, impone scelte, ti mette a nudo.
Sì perché si impara ad essere liberi: dall’ignoranza di chi giudica per “sentito dire” e crea leggende inesistenti, dai vizi della ripetizione passiva che rende schiavi.
Sì perché la rabbia che da impotenza dice quanto siamo fragili e infinitamente umani, e insegna non a salvare ma a camminare insieme, l’uno accanto all’altro.
Sì perché si scopre che il fallimento può essere un’occasione per ripartire, che si può amare o odiare solo attraverso gli occhi, che il silenzio può avere un suono, che gioia e disperazione non sono incompatibili, che la creatività vince la monotonia.
Sì perché il viaggio non finisce sull’aereo di ritorno ma entra nella vita di ogni giorno e la trasforma, come sta succedendo a me. Ed è una sensazione strana e bellissima: tenere per mano due terre così lontane e diverse e farle avvicinare, accorciarne la distanza.
Giulia Maccagno