
Dare dalla povertà
Un giorno il vescovo di Potosí, mons. Ricardo Centellas, raccontava a noi suore circa gli incontri nazionali dei sacerdoti diocesani, che si tengono annualmente, con sede a rotazione per facilitare lo spostamento di tutti (una volta sarà vicino per alcuni, la volta dopo per gli altri…). Alla domanda che pongo candidamente: “Quanti sono i preti diocesani in Bolivia?”, ricevo una risposta che mi lascia senza parole: “800 circa”. Il confronto con la situazione italiana è immediato: la mia diocesi di origine – Saluzzo, in provincia di Cuneo – pur essendo piccola, conta ancora un centinaio di sacerdoti. La Bolivia, Paese grande tre volte l’Italia, ne ha solo 800!
Si tratta, in realtà, di una situazione comune in America Latina: grandi estensioni di territorio, popolazione per lo più concentrata nelle città, una parte dispersa nel territorio non urbano. Diocesi sconfinate, che non riescono a coprire tutte le parrocchie con la presenza di un sacerdote. In un incontro pastorale, sempre mons. Ricardo faceva notare – commentando alcuni documenti del Concilio Vaticano II – che quasi tutti i suoi preti erano nati dopo il Concilio, si tratta quindi di un clero locale giovane, a differenza di quello che siamo abituati a vedere in Europa. Giovani, ma pochi.

Il 2015 è stato un anno molto importante per la Chiesa Boliviana: fin dal 2014 è iniziata la preparazione capillare al grande evento del Congresso Eucaristico Nazionale, svoltosi nella città di Tarija nel mese di settembre 2015, il cui titolo era: “Pane spezzato per la vita del mondo”. Ogni diocesi ha mandato i suoi rappresentanti, oltre a celebrare a livello locale il proprio congresso.
In realtà, l’evento era previsto per luglio, nel periodo delle vacanze invernali (siamo nell’emisfero sud, le stagioni sono al rovescio), ma proprio in quei giorni è avvenuta la breve visita di Papa Francesco, che arrivava dall’Ecuador e che si sarebbe poi spostato in Paraguay, per terminare il suo viaggio apostolico in America Latina. All’aeroporto di El Alto, a più di 4000 m di altitudine, il Pontefice è stato accolto formalmente – e anche un po’ freddamente – dal Presidente Evo Morales, che gli ha subito messo al collo una splendida “ch’uspa” contenente foglie di coca. Si tratta di una borsa che l’autorità originaria appende al collo, nella quale mette la coca da condividere nei raduni. Era un segno forte e significativo: Evo ha da sempre lavorato per la legalizzazione a livello internazionale della coca; in più, questa pianta sacra è un simbolo dell’identità del popolo andino, e la “ch’uspa” è un oggetto che indica il riconoscimento di un’autorità, in questo caso dell’autorità del Papa. Vorrei qui precisare che le foglie di coca non sono una droga: la coca è una pianta le cui foglie hanno tante proprietà a livello medicinale, e non crea dipendenza. La sapienza originaria ha saputo utilizzare la pianta per vivere e sopravvivere nel duro clima dell’Altipiano Andino. Il lato oscuro del cuore umano è riuscito a modificare chimicamente le foglie di coca in droga (cocaina e eroina). Se non bastasse la mia spiegazione per convincervi, vi racconto di una straniera che, non sentendosi molto bene a causa dell’altitudine, e non volendo masticare foglie di coca, né berne la tisana, ha voluto andare in una farmacia. Il farmacista le ha detto: “Beva una tisana di foglie di coca. Non c’è altra soluzione!”.

Mi pare che tutti i momenti di incontro tra il Presidente dello Stato Plurinazionale e Papa Francesco abbiano avuto questa ambivalenza: da una parte, rendere onore al Capo della Chiesa Cattolica, dall’altro sottolineare fortemente l’identità dei popoli nativi, ma in un modo contrastante. Ed in effetti, la politica dell’attuale governo ha avuto numerose occasioni di scontro con la Chiesa, a tutti i livelli. Si associa la Chiesa al colonialismo, e vi è pure un revival della religione tradizionale, movimento più ideologico e politico che reale: come si può recuperare e far rivivere una religiosità di cinque secoli fa, in un mondo tanto diverso e con il peso che ha la storia? Fino al Concilio Vaticano II, la ritualità originaria era considerata un peccato da confessare, ma negli ultimi 50 anni la gente (preti compresi) è uscita dalla clandestinità, e in frequentatissimi santuari mariani quali sono Copacabana e Urkupiña, convivono pacificamente le celebrazioni cristiane e le ritualità originarie. Non c’è contrasto: la sapienza del popolo ha saputo accostare le espressioni tipiche della religiosità ancestrale con la nuova fede che hanno portato gli Europei. La simbiosi è riuscita così bene che oggi essere Quechua o Aymara significa, per i più, anche essere cattolici. Per questo e altri motivi la diffusione delle Chiese evangeliche non ha avuto grande successo, se non in alcuni contesti urbani.
Papa Francesco, oltre alle visite formali con le autorità civili e con diversi gruppi ecclesiali, ha incontrato i movimenti sociali, riuniti in Forum a Santa Cruz de la Sierra, e i detenuti del carcere di Palmasola. Ai primi ha ricordato le tre “T”: “trabajo, tierra” techo y (lavoro, casa e terra) come i diritti fondamentali di ogni persona; ai detenuti si è presentato come un uomo dai molti peccati che è stato perdonato: “Quello che ho e che voglio condividervi è questo: Gesù Cristo, la misericordia del Padre”. Il Pontefice, come pellegrino della misericordia di Dio, non si stanca in tutti i luoghi di ricordare che il nostro è un Dio d’amore e di perdono, e allo stesso tempo sprona i fedeli e le autorità civili a cercare sempre la giustizia, la difesa dei più deboli, contro una cultura dello “scarto” per cui si dà valore e possibilità solo a chi è utile e non è considerato un peso dalla società.

Ai sacerdoti e religiosi riuniti, ha spiegato in maniera semplice ma chiara e diretta – secondo il suo stile – la parabola del cieco Bartimeo, identificando le tre reazioni davanti al suo grido di supplica con altrettanti atteggiamenti che si possono assumere davanti al clamore dei fratelli: passare oltre (cioè l’indifferenza); lo “sgridare il gridante”, quando il disagio del fratello diventa un problema o un peso; e poi l’atteggiamento positivo: l’incoraggiamento ad alzarsi e camminare, aiutare il fratello a incontrare Gesù. Una Chiesa vicina a tutti, che si fa sorella e madre di tutti.
Ancora con il cuore palpitante per la visita del Papa, ben 2000 persone hanno partecipato, in settembre, al Congresso Eucaristico Nazionale. Le famiglie di Tarija hanno aperto le loro porte e, con l’accoglienza squisita tipica dei Boliviani, hanno ospitato i congressisti nelle loro case. Per una settimana sono riecheggiate le parole di Francesco che, inaugurando l’evento durante la sua visita, aveva ricordato che l’adorazione e la comunione con Gesù Eucaristico liberano dall’individualismo e costruiscono la fraternità nella Chiesa.

Il 2015 è stato un anno molto intenso e significativo per la Chiesa boliviana, e non è che l’inizio: già è cominciata la preparazione per il Congresso Missionario Continentale che si terrà nel 2018. Una Chiesa viva che, pur nella sua povertà, sa dare tutto quello che ha. E riceve le lodi del suo Signore, allo stesso modo della vedova che getta due spiccioli nel tesoro del Tempio.
Questo articolo è stato pubblicato nella rivista Andare alle Genti Maggio – Giugno 2016