Il racconto di un incontro. Quando l’ Altro ci insegna che cos’è la vera fede

Era una notte fredda e una insistente pioggerella batteva, beffarda,la finestra della mia stanza; la tentazione di rimanere a casa, al caldo, dopo una intensa giornata di lavoro s’insinuò lusinghiera dentro di me. Ma il mio pensiero si spostò subito verso quei fratelli e sorelle che quella notte, come tante altre notti, avrebbero dormito all’aperto, al freddo, non avendo altre possibilità, altre scelte! Loro sono il popolo della notte, il popolo della strada, che ogni sera cercano rifugio nella stazione di Milano Centrale e nei sui dintorni.
Nonostante il brutto tempo, o forse proprio per quello, quella sera eravamo più numerosi del solito, eravamo in cinquantadue! Giovani e adulti che dopo un intenso momento di preghiera, fatto nella hall della stazione, in gruppi di tre, andiamo incontro a quei fratelli e sorelle, per di più stranieri, che in qualche modo ci aspettano. Non portiamo loro né soldi, né cibo, nulla di materiale. Ma diamo a loro quello che abbiamo: il nostro tempo, la nostra vicinanza, il nostro ascolto, umile e rispettoso, perche profondamente convinti che non c’è dolore più grande che soffrire da soli, sentendo che “nobody cares”, nessuno ha cura di me.

Quella sera incontrammo Shaban. Era seduto sui gradini, e quando ci avvicinammo, benché non ci conoscesse si alzò in piedi e ci salutò affabilmente, come se ci attendesse da lungo tempo. Quindi, dopo aver scarsamente detto i nostri nomi, seduti vicino a lui ascoltammo la sua vicenda.
Shaban ha quarantadue anni, viene da una zona molto povera dell’Egitto, quindi è uno dei cosiddetti migranti economici, cioè quelli che secondo la politica migratoria Europea, avrebbero meno diritti di migrare! Ma, Shaban ha una famiglia a cui pensare, ed è proprio per loro, ci dice, che lui ha deciso di emigrare, nella speranza di poter dare ai suoi tre figli un futuro.
S’è indebitato fino all’inverosimile per poter partire, ha guardato la morte in faccia, non solo durante la traversata, ma tante altre volte. Shaban sa di essere un clandestino glielo dicono non solo la mancanza di documenti, ma anche gli sguardi diffidenti della gente quando chiede aiuto o un lavoro; glielo ha fatto sentire lo sfruttamento subito e le condizioni disumane in cui dovette vivere insieme ad altri compagni disperati che, come lui, avevano rischiato tutto pur di arrivare in Europa. Per loro, spiega, rimanere nel proprio paese sarebbe stato morte sicura, partire morte probabile, perciò s’aggrapparono a quel filo di speranza e sfidarono il mare.
Da quando arrivò in Italia, Shaban non disdegnò nessun tipo di lavoro, in Sicilia, Puglia e Milano, pur di guadagnare qualcosa per i suoi figli. Recentemente è stato barbaramente pestato e derubato di tutti i suoi soldi, quei soldi che, privandosi anche del necessario, era riuscito a mettere da parte per inviare alla sua famiglia. Non impreca né si lamenta, ma è addolorato giacché i suoi cari non avranno niente per celebrare la Festa del Montone, festa assai importante per la comunità islamica. Ma “Allah non dorme, Lui si prenderà cura di loro, così come si prende cura di me!” Afferma con fede incrollabile, con testarda convinzione. Commossa recito per lui le parole del Salmo 120: Il mio aiuto viene dal Signore che ha fatto cielo e terra. Non si addormenta,non prende sonno il Custode d’Israele. Egli è come ombra che ti copre e sta alla tua destra(…). Il Signore ti proteggerà da ogni male, Egli proteggerà la tua vita. Il Signore veglierà su di te, quando esci e quando entri, da ora e per sempre!

Shaban ha parlato per più di un’ora condividendo con noi un pezzetto della sua vita, le sue difficoltà, le sue speranze, la sua fede, arricchendoci col dono di se stesso. Ci ha colpito profondamente , quella sua capacità di resistere, di rimanere in piedi di fronte alle prove, alle ingiustizie, alle sofferenze, quella capacità di accogliere il dolore e viverlo a testa alta, eroicamente, dignitosamente!
Quando scesi dalla metro piovigginava ancora. Col cuore gonfio ringraziai il Signore per il dono di quell’ incontro e per tutti i Shaban, roveti ardenti, che nonostante l’indicibili sofferenze ed umiliazioni non si consumano, e dai quali il Signore, l’Io Sono, oggi, continua a parlarci, chiamarci, inviarci (Es 3.2-10).
E’ passato più di un anno da quando incontrai Shaban, ma ancora porto in cuore le grandi lezioni imparate da quel fratello musulmano. Ora sono in Sicilia, dove insieme ad altri tre missionari abbiamo avviato una comunità inter-congregazionale per un servizio ai migranti; un progetto della Conferenza degli Istituti Missionari Italiani (CIMI), la quale sentendosi provocata ad ascoltare il loro grido di aiuto vuole impegnarsi concretamente affinché “il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che speso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo (MV 15).”